La campana a Parigi suona anche per noi
Alessandro De Angelis
Eppur si vota in Francia, in tempo di guerra, come si è votato in Germania, in tempo di pandemia. Certo, a fine mandato. Ma, e non è un dettaglio, con un senso di normalità, senza cioè che questo venga vissuto come un rischio. Che è poi quel che è accaduto, da oltre un decennio, in Italia, dove con l’idea proteggere il paese evitando il voto, si è creato progressivamente un populismo peggiore. Anche perché ogni governo, nato sia pur con le migliori intenzioni, è finito nella grande palude. Ha ragione Giannini: la campana francese suona anche per noi. Il quando del voto. La sua posta in gioco con buona pace di chi pensava che, ad addomesticare il populismo, ci avesse pensato la pandemia più che la politica. E invece: in Francia per i candidati anti-sistemici, Le Pen-Zemmour-Melenchon ha votato un francese su due, Biden avrà un difficile Midterm. E poi: il trionfo di Orban e Vucic. E l’Italia? Da giorni si rincorrono rumors su una certa stanchezza del premier in relazione a un quadro politico sempre più sfarinato. Insomma, questo il senso, se potesse si libererebbe volentieri del fardello, peccato la situazione, per ora, lo inchioda lì.
Malelingue o meno, l’impotenza è oggettiva tra una lite sul catasto, un distinguo sulla giustizia e il Def contestato il minuto dopo che è stato approvato all’unanimità. Non c’è provvedimento che, una volta varato, non sia consegnato alla confusione parlamentare sia a causa dell’opera di logoramento dei partiti, alcuni più di altri, sia perché anche il timoniere si è lasciato assimilare, rinunciando, per deficit di politica, all’impresa titanica di emancipare un sistema in crisi, quantomeno a provarci. Avanti così, si porrà, inevitabilmente il tema se conviene una campagna elettorale strisciante lunga un anno o se, di fronte alla paralisi, meglio una, conclamata, di due mesi. Il paradosso è che nessuno finora ha mostrato tutta questa voglia di tirare la corda fino a spezzarla. È tutto molto italiano: finché c’era l’orizzonte della ripresa e del piatto ricco della spesa pubblica da redistribuire, l’idea del voto aveva solleticato i desideri della Meloni e di Salvini. La guerra e la prospettiva di una finanziaria severa, li ha immediatamente sopiti: meglio lasciare la responsabilità delle scelte, con annessa impopolarità, a Draghi, nell’inferno della sala macchine, limitandosi ad occupare il palcoscenico, a favor di camera e di sondaggio.
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