Trincea Donbass, davanti all’aeroporto di Donetsk i carri russi avanzano: “Sarà qui la resa dei conti”
Francesco Semprini
DALL’INVIATO A PISKY. Yuri ha le mani provate. Solchi, calli, ferite, unghie spaccate sono l’immagine del duro lavoro di chi, come Yuri, ha lavorato la terra, scavando trincee. I contadini con il loro lavoro plasmano il paesaggio, Yuri e i suoi compagni d’armi con il loro lavoro arano il futuro della nazione. La sua stretta di mano racconta già molto di lui e della recente storia del Paese, ha 30 anni e da circa otto scava trincee, ci vive, ci combatte, ne esce solo per stare vicino alla moglie e al figlio che ha sei anni. «Sono al sicuro, qui prima o poi si scatena l’inferno».
La sua vita in prima linea inizia in Pravyj Sektor (Settore destro) partito e organizzazione paramilitare ultranazionalista, poi passa nell’Esercito. Ha combattuto il primo Donbass, è pronto a combattere il secondo. «Sono lì vedi, sono lì gli invasori, si preparano», dice indicando una colonna di fumo grigio che si alza a non più di un paio di chilometri. Poco prima le batterie ucraine avevano dato fiato a una decina di missili Grad. A Pervomaiske c’è l’ultimo check-point su strada prima di avventurarsi nelle campagne dove le forze ucraine posizionano trincee e mezzi a guardia del territorio del Donbass governativo. I russi sono a portata di mano. Per arrivare in quell’ultima appendice di territorio sotto il controllo di Kiev, alle porte degli inferi, occorrono due ore di auto da Kramatorsk, la città teatro della strage della stazione di venerdì in cui sono rimaste uccise oltre cinquanta persone, quasi tutti civili. Ad attenderci, accanto a Yuri, c’è Irina, una donna minuta dagli occhi celesti più del cielo. Ha 51 anni e un figlio che vive al sicuro, la mimetica le sembra pennellata addosso, maneggia il fucile con garbo. «Sono del battaglione Sarmat, brigata Mariupol», dice appena arriviamo. Si occupa di comunicazione e, in un conflitto in cui l’infowar è la quarta dimensione bellica, il suo ruolo è cruciale.
Sul fuoristrada il sergente annuncia l’arrivo di civili verso l’avamposto, si arriva dopo circa quindici minuti di fango, buche e sentieri sterrati, tra postazioni trincerate dove sono appostati sentinelle e blindati, pronti ad attivarsi in caso di aggressione. Il lungo rettilineo finale è fiancheggiato sulla sinistra da una collina al di là della quale ci sono i filorussi, davanti un avvallamento segna l’inizio della postazione. «Ben arrivati a Pisky signori», dice un maggiore sbarbato, il suo nome è Mikael, è psicologo e segue da vicino i militari che a turno occupano la guarnigione. La pistola alla cinta fa credere che li segua anche in trincea. «Quando si parte per un’operazione ci laviamo le mani con la terra, perché tutto parte dal suolo che vogliamo difendere».
La terra è l’elemento ricorrente, una sorta di cordone ombelicale che in prima linea rafforza la sua sacralità. La terra trasforma e si trasforma, come quella scavata per ricavare trincee che viene utilizzata per riempire sacchi di sabbia per creare fortificazioni. Eccolo un altro rituale, il riempimento dei sacchi che avviene a turno, più volte al giorno. Due vangano il terzo tiene il sacco. Yuri fa segno di seguirlo, assieme a un altro soldato che si chiama anch’esso Yuri, ma sembra la perfetta antitesi, basso robusto e scuro, e un terzo militare danno inizio al pattugliamento. Prima in spazio aperto, tra un sentiero costellato di mine anticarro, poi giù in una trincea alta oltre un metro, dove l’umido delle gambe contrasta col calore del sole che batte sull’elmetto.
I kalashnikov sono puntati avanti, a destra e a sinistra, sopra le teste si sentono le traiettorie di missili e artiglieria. Yuri si ferma, gli altri due in retroguardia, saliamo sulla collinetta tenendoci accucciati: «Quello è l’aeroporto di Donetsk, lì ci sono i russi». A distanza di circa due chilometri si vedono le due torri dello scalo divenuta la prima roccaforte di Mosca, la più vicina al territorio controllato dai governativi. È da lì che partirà la nuova offensiva delle forze di Vladimir Putin, il quale è determinato a mettere le mani su tutto il Donbass, non solo su quello controllato dai filorussi.
Senza un risultato in questa parte del Paese il capo del Cremlino non tornerà mai a sedersi al tavolo negoziale, specie dopo il disimpegno da Kiev. Gli ucraini ne sono consapevoli, ma non temono il confronto, «non cederemo neppure un metro quadrato della nostra terra».
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