Lo spread oltre quota 200 dice “no” allo scostamento

Stefano Lepri

Nei due anni della pandemia, era stato a lungo possibile prendere a prestito a costo zero. L’abbondanza di risparmio nel mondo ha permesso agli Stati di proteggere i loro cittadini, indennizzandoli delle perdite da mancata attività. Ora quell’epoca è finita; far debiti torna a essere oneroso, purtroppo proprio quando gli effetti della guerra ci colpiscono con prezzi più alti. Per questo va inteso come serio segnale d’allarme quel numero che sui mercati è stato varcato ieri, 200 punti base di «spread», ovvero 2% di interesse in più sul debito pubblico italiano rispetto al debito tedesco, ritenuto più sicuro. E invece, fino agli ultimi giorni, quasi tutti i partiti sollecitavano il governo a indebitarsi di più, con il termine ora in voga, «scostamento». È normale che, quando i tassi di interesse salgono, in quasi tutti i Paesi dell’area euro cresca il divario con la Germania. Anche in Spagna lo «spread» si è quasi raddoppiato negli ultimi mesi, per giungere a 120. Ma l’Italia già paga in proporzione più interessi di tutti gli altri, e fa più fatica a ripagarli perché la sua economia tende a crescere meno delle altre.

In questo senso gli eventi politici degli ultimi giorni sono davvero preoccupanti. Alle richieste di nuovi «scostamenti» Mario Draghi è riuscito finora a dire di no, e sembra intenzionato a resistere; tuttavia, l’attività di governo è sempre più intralciata, specie perché si avvicinano le elezioni amministrative. Il senso che ne esce è sempre più: si va avanti se non si tenta di cambiare nulla.

Il governo Draghi era nato dal riconoscimento comune, seppur mai esplicito, che occorresse reagire alle difficoltà con il pragmatismo, rinunciando a impostazioni troppo di parte. Si dovevano, in pratica, realizzare riforme di non immediata popolarità, per poi tornare a dividersi in seguito, quando i tempi fossero tornati a consentire la scelta fra progetti differenti. Mille volte è stato ripetuto che la via maestra per alleggerire il debito dell’Italia è rendere più dinamica la sua economia; ovvero di riformarla, liberandola da impacci, da privilegi di gruppi e categorie, da iniquità che tolgono la voglia di darsi da fare. Purtroppo, se guardiamo alle ultime settimane, svariati successi di partito consistono nell’aver costretto il governo a non riformare. Il compromesso sulla delega fiscale significa in pratica che nel nostro fisco cambierà poco o nulla: né sotto il profilo dell’equità, come nella tassazione delle case, né sotto il profilo dell’efficienza, nella tassazione del risparmio e altrove. Era naturale che in questo campo partiti di destra e di sinistra si proponessero scopi diversi; forse si era sperato di conciliarli a forza di «scostamenti». Dovremmo cercare di premiare l’uso produttivo delle risorse (l’impresa, il lavoro) invece di proteggere le rendite; la propaganda politica a difesa dei patrimoni quasi sempre l’ha vinta. Per avere servizi pubblici migliori, occorrerebbe aprirli alla concorrenza, metterli a gara, ma guai a toccare i poteri discrezionali delle amministrazioni locali.

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