I partiti servono, ma ora cambino

Ora che abbiamo fatto un lungo percorso, guidati da questi tre grandi movimenti ideali, che nel corso della storia novecentesca hanno anche trovato il modo di confluire su obiettivi comuni (distribuendo a tutti non «bonus» o redditi variamente denominati, ma beni più consistenti come istruzione, sanità, pensioni, mentre assicuravano libertà e rispetto per le autonomie e i corpi intermedi), non sappiamo più dove andare, e quindi la politica è divenuta scaramuccia quotidiana. Chi ci ha preceduto ha compiuto pacifiche rivoluzioni, per le quali valori di libertà, solidarietà, fratellanza sono scritti persino nella Costituzione, in quella sua prima parte che nessuno ha mai posto in dubbio in più di un settantennio.

Ora nascono nuovi bisogni, che vanno interpretati (bisogna capire «come sono davvero cambiate le cose del mondo»: Angelo Panebianco, 30 maggio), sui quali la politica deve riflettere e formulare soluzioni, aggregare consensi, stabilire alleanze. Ed è questo che manca alla forma partito di oggi: vigore intellettuale nell’interpretare bisogni e sentimenti, e poi capacità di costruire intorno ad essi programmi e progetti, preparandosi a gestirli.

Dei partiti c’è bisogno, perché non vi è altro modo con il quale la società possa dialogare con il governo, la piazza farsi ascoltare dal palazzo. Ma i partiti debbono ridiventare forze vive, uscire dagli schemi consueti e interrogare la nuova realtà, intercettare una domanda di politica tanto viva quanto insoddisfatta, selezionare nuovo personale, fare programmi, individuare chi sappia tradurli in realtà.

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