Il mondo senza globalizzazione condannato alla decrescita
Bei tempi, quando Luigi Einaudi alla vigilia degli accordi di Bretton Woods poteva scrivere che «libertà di scambi economici vuol dire pace». L’abbiamo creduto per lunghi anni, e animati da giusta e solida fede mercatista abbiamo costruito la Ceca e il Mec, i Trattati di Maastricht e il Wto. «Dove passano le merci non passano gli eserciti», era il primo comandamento della modernità occidentale, sovranazionale, multilaterale. Un principio che ci ha guidato a lungo e con successo per i tornanti accidentati della Storia, fino a farci illudere che a un certo punto la Storia stessa fosse finita.
Come negli Anni Trenta toccò a un frustrato caporale boemo rompere il fragile incantesimo della pace di Versailles, stavolta tocca a un oscuro ex funzionario del Kgb sfasciare l’umile presepe del vecchio Ordine Mondiale. La guerra in Ucraina, oltre che di umani, fa strage di illusioni. La più importante, com’è ovvio, riguarda la nostra sicurezza fisica: nel pianeta che si riarma siamo tutti in pericolo. Non sappiamo se e come sarà possibile rideclinare il principio di deterrenza nucleare, dentro un mondo nuovamente diviso da quella che Lucio Caracciolo sull’ultimo numero di Limes definisce la nuova «Cortina d’acciaio». Sappiamo però che nel frattempo tornano pressanti l’esigenza di una «difesa nazionale» (di cui l’indicatore più lampante, oltre al riarmo tedesco da 108 miliardi, è la rincorsa verso l’ombrello della Nato di Stati da sempre neutrali come Svezia e Finlandia) e l’urgenza di una «difesa individuale» (di cui il riflesso più inquietante, nonostante la mattanza di Uvalde, è il cuore di tenebra del «forgotten man» americano, che ogni mese corre al supermarket per comprare più di due milioni di pistole, fucili a pompa e mitragliette semi-automatiche).
Non meno importante, tra le illusioni perdute, c’è la nostra sicurezza economica. Dal gas al grano, dal petrolio al palladio, l’impazzimento del listino-prezzi delle materie prime innescato dall’invasione russa sta terremotando ovunque scambi e catene di fornitura. La seconda vittima della guerra, dopo la civiltà umana, è la globalizzazione. L’ha spiegato come meglio non si poteva il governatore della Banca d’Italia, prima all’assemblea annuale del 31 maggio, poi al Teatro Carignano di Torino per il Festival dell’Economia, dove ha compiuto una meritoria «operazione-verità» sui seri guai che ci aspettano e che i governi tendono inevitabilmente a nascondere, a troncare e a sopire. Ignazio Visco vede all’orizzonte effetti «potenzialmente gravissimi» da questa guerra, che tra chiusura di commerci e di mercati, crisi energetiche e carestie alimentari, può cambiare per sempre il nostro modo di vivere, di consumare e di produrre. E soprattutto può affondare ancora una volta le sue lame nella carne viva dei più poveri e dei più deboli.
Se osserviamo il caos bellico e i suoi effetti sul pianeta, il pericolo più serio del futuro dopo-guerra è quello di una «de-globalizzazione disordinata». Con tutti i suoi limiti e le sue iniquità, negli ultimi trent’anni il processo di apertura dei mercati, superamento dei confini e liberalizzazione degli scambi su scala globale ha consentito comunque a miliardi di persone di uscire dalla fame e dalla miseria. Spiacerà a no-global irriducibili e sovranisti inconsolabili, ma è un dato di fatto: dopo la fine della Guerra Fredda, la globalizzazione ha prodotto davvero «un’espansione senza precedenti»: il Pil mondiale è cresciuto di due volte e mezzo rispetto al 1990, il Prodotto pro-capite è aumentato del 75 per cento, il commercio mondiale è quadruplicato, il numero di poveri assoluti nell’Africa sub-sahariana si è ridotto da 2 miliardi a 700 milioni. Certo, società e mercati aperti non hanno eliminato le disuguaglianze e neanche «abolito la povertà», come qualcuno dalle nostre parti sperava di fare per decreto. E ha ragione il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, nel suo «Bentornato Stato, ma..» appena uscito dal Mulino, a ricordare che la globalizzazione neo-liberista e la rivoluzione degli spiriti animali effettuata in suo nome, «diversamente da quanto asserito dai suoi cultori, non è andata a beneficio di tutti». Anche Visco lo conferma: nonostante la significativa riduzione delle disparità dei redditi pro-capite tra Paesi, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza sono fortemente cresciute, soprattutto all’interno delle economie avanzate. E paradossalmente, proprio nell’Occidente che l’ha «inventata», hanno dato origine a una sfiducia nella globalizzazione, a un rigetto del progresso scientifico e tecnologico. E in fondo, aggiungo io, a un maggiore senso di esclusione sociale, e dunque a un’ulteriore forma di disincanto democratico.
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