Il mondo senza globalizzazione condannato alla decrescita
Come la rivoluzione di Mao, la globalizzazione non è un pranzo di gala. Abbiamo consentito a una massa di disperati della Terra di salvarsi dalla miseria e dalla fame. Gli abbiamo offerto un magro salario per vivere, facendogli produrre a basso costo prodotti intermedi o beni di largo consumo utili alle nostre filiere. Ma il dumping sociale indotto da quelle retribuzioni, accettabili per chi moriva di stenti, è diventato insostenibile per chi aveva conosciuto e si era abituato al benessere. Così, mentre l’emisfero Sud del mondo ha iniziato ad affrancarsi dal bisogno, l’emisfero Nord è entrato in crisi.
Resta il fatto che domani, se pensiamo che la exit-strategy dalla guerra sia un mondo più chiuso e meno globalizzato, costruiamo da soli la nostra decrescita infelice. E se immaginiamo che alla de-globalizzazione economica indotta dalla guerra di Putin si possa supplire con una ri-globalizzazione geografica «per blocchi», stiamo sbagliando clamorosamente strada. È un’idea che prende corpo, tra i think tank anglo-americani che puntano a trasformare la legittima difesa delle liberaldemocrazie nel nuovo scontro di civiltà contro tutte le autarchie, e in quelli cino-russi che investono su una crociata uguale e contraria. A lorsignori, sedotti dallo storytelling secondo il quale gli scambi potrebbero essere concentrati all’interno di aree costituite da Paesi politicamente affini o uniti da accordi economici regionali, il governatore Visco rammenta giustamente che una nuova divisione del mondo in blocchi comprometterebbe i meccanismi che hanno stimolato la crescita e ridotto la povertà. E soprattutto disperderebbe quel “patrimonio di fiducia reciproca” che, oltre ad essere indispensabile per la con vivenza pacifica tra le nazioni, «rappresenta un’insostituibile base per affrontare le sfide cruciali delle prossime generazioni: il contenimento del riscaldamento globale, la lotta alla povertà estrema, il contrasto alle pandemie». Piaghe quasi bibliche, che nessun Paese può affrontare e gestire da solo. Dobbiamo saperlo, ed essere all’altezza del compito.
Ma questa consapevolezza, che è di noi occidentali, se ne porta dietro un’altra, che è di noi europei. Nel ricercare un nuovo assetto per l’economia mondiale, i nostri interessi possono essere non distanti, ma distinti da quelli americani. Lo testimonia Paolo Gentiloni, nell’intervista al nostro giornale, quando dice «l’Europa ha chiaro che la globalizzazione va ripensata in chiave di sicurezza energetica, difesa delle filiere, geo-politica, indipendenza nei settori strategici». Ripensando se stessa in un ignoto dopo-guerra, l’Unione ha bisogno di una «globalizzazione meno ingenua» e costruita sulla lezione del Covid e del conflitto ucraino. Ma non certo di uno schema di «friends-shoring», in cui facciamo affari e coltiviamo relazioni commerciali solo tra di noi, nel perimetro chiuso e protetto dell’Occidente. Per la nostra economia aperta e concorrenziale, ribadisce il commissario Ue, sarebbe «uno scenario inimmaginabile». Anche questo messaggio bisognerà veicolarlo bene al di là dell’Atlantico, e farlo accettare fino in fondo all’alleato americano. Una Yalta della globalizzazione, dove convivono ma non collaborano due aree economiche e valutarie alternative e impermeabili, è solo una grave distopia della Storia. Noi stessi, cittadini fieri delle democrazie, rinchiusi e reclusi in una porzione di pianeta che rappresenta solo il 7-9 per cento della popolazione mondiale, avremmo tutto da perdere. Prendano nota, i capi di Stato che chiamano i popoli alla battaglia ideologica tra «noi» e «loro». La globalizzazione o è globale oppure, semplicemente, non è. Torniamo così a Luigi Einaudi, un grande piemontese che oggi sarebbe fiero di Torino e del Festival dell’Economia che ospita: «La cooperazione internazionale ha in passato sempre giovato più ai poveri che ai ricchi. Così sia anche stavolta. Ma così sarà solo se noi fermamente lo vorremo».
LA STAMPA
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