Nicola Gratteri: “Il bavaglio ai magistrati è un errore. Così le cosche puntano ai soldi del Pnrr”
E la riforma del Csm la convince?
«Per nulla, non cambierà niente e il sistema delle “correnti” resterà inalterato».
Lei ha detto che davanti a quanto emerso a partire dal caso
Palamara sarebbe stato necessario scioglierlo: perché non si è fatto?
«Lo deve chiedere a chi aveva il potere di scioglierlo».
La valutazione dei magistrati è un sistema che può servire a risolvere alcuni mal funzionamenti?
«Quello
che prevede la riforma è una sorta di controllo “esterno” sul lavoro
dei magistrati nelle valutazioni di professionalità, riconoscendo un
diritto di voto ai membri laici, tra cui gli avvocati componenti del
Consiglio Giudiziario. È inaccettabile sia perché non si comprende per
quale ragione la nostra valutazione debba essere oggetto anche di una
stima da parte di chi non fa parte della nostra categoria, ma
soprattutto perché in questo modo si va a intaccare l’autonomia e la
terzietà del magistrato. Insomma questa previsione, che chiarisco a
scanso di equivoci non mi riguarda, credo abbia l’odore di una
punizione. Ma la quasi totalità dei magistrati sono persone che lavorano
tanto e bene e che questo “trattamento” proprio non se lo meritano».
La separazione delle carriere aiuta o danneggia?
«Sono
fermamente contrario, è una di quelle proposte che considero
assolutamente pregiudizievoli per il sistema, oltre che
incostituzionale. Il passaggio di funzione, che bisognerebbe incentivare
e non limitare, rappresenta un arricchimento professionale e consente
al magistrato di sviluppare una visione globale del procedimento. Questo
è innegabile, ma pare non interessi a nessuno».
Esiste il diritto all’affettività di chi è in prigione? Le sue ultime dichiarazioni sembrano volerlo negare.
«Il
diritto all’affettività può anche esistere, ma bisogna renderlo
compatibile con altri diritti e altre esigenze superiori, quale quella
della pubblica incolumità che, ovviamente, riguarda solo i detenuti di
alta sicurezza».
Ha detto più volte che servono nuove carceri: crede ci sia un
abuso delle misure alternative? Non sono un modo per far sì che in
carcere vada soprattutto chi rappresenta un pericolo per la società,
evitando l’affollamento per il quale l’Italia è stata più volte
richiamata anche a livello europeo?
«Investire nella
costruzione di nuove carceri è il miglior modo per evitare richiami
all’Italia. Su questo punto però voglio chiarire: io non voglio più
carceri per riempirle. Come cittadino, oltre che come magistrato sarei
contentissimo di vivere in un Paese dove nessuno più commette reati, chi
non sarebbe contento? Ma se così non è, il sovraffollamento non deve
diventare un alibi. La creazione di nuove carceri e l’ampliamento di
quelle già esistenti renderebbe molto più dignitosa la detenzione di
tutti e questo è la prima cosa per assicurare la rieducazione del
detenuto. Non è un caso se il carcere di Bollate è quello che ha meno
recidivi. Non deve essere l’eccezione, ma la regola. Poi, bisogna
investire in strutture per ospitare i tossicodipendenti, che vanno
curati e aiutati; nella costruzione delle Rems, per i soggetti incapaci
di intendere e di volere; assicurare spazi e locali per consentire a
tutti i detenuti che vogliono di potere lavorare e imparare un
mestiere».
Una delle cose che si dice spesso della ‘ndrangheta, è che ci
siano pochissimi pentiti perché i legami sono di tipo familiare. È
ancora così?
«Ovviamente, resta l’organizzazione mafiosa più
impermeabile, proprio a causa del vincolo di sangue che ne caratterizza
la struttura. Negli ultimi tempi però abbiamo avuto decine di
collaboratori di giustizia, tra cui anche i figli di alcuni potenti boss
calabresi. Al processo Rinascita Scott ci sono quasi 60 collaboratori
di giustizia. È un segnale incoraggiante».
Quando ha deciso che avrebbe fatto il magistrato?
«Sono
nato a Gerace e ho studiato a Locri. Alle scuole medie, al liceo,
vedevo i figli dei mafiosi che facevano i prepotenti. Ho visto anche
tanti morti ammazzati. Forse è nata in quegli anni l’idea di fare
qualcosa per contribuire a liberare la mia terra dalla paura. È stato
all’università che ho deciso di fare il magistrato. Mi sono laureato in
quattro anni a Catania e due anni dopo ho vinto il concorso in
magistratura. Nonostante avessi la possibilità di scegliere sedi fuori
dalla Calabria, ho scelto di restarci. Sono stato a Locri, poi a Reggio e
ora a Catanzaro. Sempre a indagare sulla ‘ndrangheta e sul
narcotraffico. Se potessi resterei sempre in Calabria».
Crede che qualcuno, a livello politico, voglia ostacolare il lavoro dei magistrati antimafia?
«Non
saprei. Il manovratore solitamente non vuole essere disturbato. Non
sono legato a correnti, ho fatto domanda per diventare procuratore di
Reggio Calabria e procuratore nazionale antimafia e in entrambi i casi
sono stato bocciato. Vivo sotto scorta da oltre 30 anni e non mi sono
mai abbattuto. Guardo avanti. E non mi fermo, costi quel che costi».
C’è qualcosa che la notte la tiene sveglio?
«Dormo poco, ma ho la coscienza a posto».
Lei ha una scorta sempre più imponente e immagino sia perché le minacce, negli anni, sono aumentate piuttosto che diminuire. Che rapporto ha con la paura?
«Cerco di addomesticarla, senza farmi vincere dalla paura. Che è un sentimento umano».
E con il coraggio?
«Penso di avere il coraggio della paura. Non c’è coraggio, senza paura».
Si candiderebbe mai?
«No. Non sono abituato a mediare. In politica la mediazione è sempre un accordo al ribasso».
Lei per poco non è stato nominato ministro. Ha raccontato che Renzi gliel’aveva chiesto e che poi tutto è saltato. Spera che quell’occasione si ripresenti?
«Non penso. E non mi interessa. È stata una pagina della mia vita che si è chiusa. Per chi ha curiosità su come è andata deve chiederlo a Renzi o a Napolitano, non a me. Io come ho detto tante volte sono un felice procuratore della Repubblica».
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