Referendum sulla giustizia al voto, l’ultima sfida alle riforme Cartabia
di Liana Milella
ROMA – Per un intero anno le riforme della giustizia – penale, civile, del Csm – hanno corso parallele a un’altra “corsa”, quella dei referendum, anch’essi sulla giustizia, lanciati dai Radicali, e sottoscritti dalla Lega. Alla partenza erano sei, al traguardo del voto sono cinque, poiché la Consulta, come vedremo, ne ha tagliato fuori uno, di certo quello più popolare, sulla responsabilità civile “diretta” dei magistrati. Nel lontano 1987, ai tempi di Marco Pannella e sull’onda del caso Tortora, aveva fatto l’en plein con 80,21% dei sì. Ma adesso i cinque quesiti, stando ai sondaggi, arrancano penosamente per via del quorum, e rischiano di non raggiungere neppure quello necessario superando il 50% degli aventi diritto al voto. Chi li propone, Matteo Salvini in testa, accusa i media, parla di “censura e bavaglio”, chiede “aiuto” addirittura a Mario Draghi e Sergio Mattarella, accusa la sinistra di “nascondere” i referendum con l’obiettivo “di avere magistrati politicizzati con i quali provare a vincere se perdono le elezioni”.
Uno scorcio di campagna referendaria del tutto sotto tono e per giunta alla fine avvelenata. Ma la “sfida” tra le tre riforme – sottoscritte dalla Guardasigilli Marta Cartabia e già votate dalla maggioranza Draghi alla Camera, Lega compresa – e i referendum adesso è giunta all’ultimo traguardo. Se ne conoscerà l’esito a distanza di soli tre giorni. Perché domenica 12 giugno – dalle 7 alle 23 – le urne non si aprono solo per le elezioni amministrative in 978 Comuni, ma anche per i cinque referendum.
Mercoledì 15 giugno, invece, l’ultima delle tre riforme di Cartabia, quella del Csm che interviene su ben tre temi (carriere dei giudici, avvocati nei consigli giudiziari, firme per candidarsi a palazzo dei Marescialli), arriva in aula al Senato per il voto finale. Suspense esclusa. Perché il premier Draghi ha già ribadito più volte che il testo uscirà da Palazzo Madama con il voto finale. Pronto per entrare in vigore. Visto che il voto per rinnovare il Csm si approssima e sarà comunque necessario un rinvio rispetto alla scadenza di settembre. Più di un’indiscrezione conferma che si voterà a novembre per dare il tempo di “digerire” la riforma e il nuovo sistema elettorale (un maggioritario binominale, con una correzione proporzionale).
Ma comunque la sfida sui quesiti referendari ci sarà lo stesso. E lo dimostra il fiorire dei gazebo Radical-leghisti in tutta Italia. Nonché lo sciopero della fame del leghista Roberto Calderoli, che si paragona a Pannella – “Il mio è un gesto estremo, ma Pannella ce lo ha insegnato: a mali estremi, estremi rimedi” – e protesta anche lui perché, a suo dire, i referendum sarebbero stati silenziati dai media e soprattutto dalla tv di Stato. Giusto ieri ha fatto sapere che, sulle sue orme, altre 160 persone sarebbero in sciopero della fame.
La preoccupazione di Calderoli è il quorum. Ma un giurista come Nello Rossi, direttore della rivista promossa da Magistratura democratica, Questione giustizia, ha appena pubblicato oggi un articolo sostenendo che “nell’astenersi dal partecipare al voto referendario non si può scorgere solo inerzia, apatia politica o disinteresse, ma anche la volontà di non consentire, con il proprio attivo concorso, a un’iniziativa referendaria ritenuta superflua o dannosa”. Rossi scrive inoltre: “Non recarsi ai seggi (o rifiutarsi di ritirare le schede dei referendum nei Comuni dove si vota anche per le elezioni amministrative) è una opzione non solo libera, non solo legittima, ma pienamente rispondente alla logica propria del referendum abrogativo. La Costituzione, infatti, nel prevedere che il referendum è valido solo se partecipa alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto (il cosiddetto quorum strutturale) ha voluto che esso sia vivificato e validato da una effettiva partecipazione popolare.”
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