Comunali, coalizioni a pezzi ma (per ora) non cambia l’agenda del governo
Le difficoltà degli schieramenti e delle forze politiche potrebbero però incidere sul timing dell’esecutivo rendendo più accidentato l’ultimo percorso di legislatura
Era chiaro che le Amministrative non avrebbero influito sulla stabilità e sull’agenda del governo. Così com’era chiaro già prima dell’apertura delle urne che il risultato non avrebbe risolto i problemi delle coalizioni e dei partiti. Ma proprio le difficoltà degli schieramenti e delle singole forze politiche potrebbero incidere sul timing e sull’azione dell’esecutivo, rendendo più accidentato l’ultimo tratto della legislatura.
I risultati definitivi del ballottaggio alle Comunali
Il centrodestra è alle prese con un cambio degli equilibri interni e non riesce a trovare un nuovo baricentro. Tale è il dissesto, che Lupi — a spoglio appena iniziato — ha chiesto «un vertice urgente dell’alleanza»: «Si deve ritrovare lo spirito originario subito o potrebbe essere tardi». Il problema non è tanto il pessimo risultato dei ballottaggi — dato che al primo turno la coalizione aveva conquistato Palermo e Genova — ma la ricostruzione della coalizione «che non può ridursi alla somma dei tre maggiori partiti». E che dovrà affrontare il test — quello sì importante — delle Regionali in Sicilia: «Lì si voterà a novembre — dice l’udc Cesa — quando staremo discutendo già il programma e le liste per le Politiche. Se dovessimo dividerci, la coalizione si disarticolerebbe e senza il proporzionale non ci sarebbe neppure uno schema alternativo».
Il fatto è che al momento ogni partito è ripiegato su se stesso. Salvini deve fare i conti con la crisi del progetto di forza nazionale e con percentuali molto basse al Nord, da dove arriva la richiesta di una «discontinuità di linea politica» insieme all’avvio dei congressi regionali. Berlusconi è costretto a rilanciare se stesso in una lunga campagna elettorale per sedare le tensioni interne a Forza Italia, che preludono a nuovi abbandoni. Quanto alla Meloni, deve constatare come gli esperimenti (e i candidati) sul territorio non abbiano coinciso con l’avanzata nei consensi e i sondaggi da primo partito nazionale. Insomma, il centrodestra (per ora) non c’è.
Ma il centrosinistra (per ora) nemmeno esiste. Dopo la scissione del Movimento Cinque Stelle, infatti, Letta ha difficoltà a definire l’area di riferimento del Partito democratico e spazia dal «campo largo» al «nuovo Ulivo», che vista l’eterogeneità dell’alleanza somiglierebbe piuttosto alla vecchia Unione. È un modo per prendere tempo, mentre nel Pd monta la preoccupazione: «Finirà che dovremo dare i nostri seggi ad alleati senza voti». Peggio. La quantità di liste «centriste» rischia di far disperdere voti di provenienza riformista. Perciò Borghi, membro della segreteria dem, sostiene che «noi non dovremo consumare la nostra identità nella ricerca di alleanze ma nella nostra iniziativa politica». Ovvero: pensiamo a noi.
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