Il segnale (forte) che arriva dalle elezioni comunali

di Massimo Franco

Il centrodestra ha trasformato il caso del ballottaggio a Verona — dove ha trionfato Tommasi — nell’emblema di una profonda divisione interna

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Sarebbe consolante pensare che l’ennesimo calo della partecipazione sia soprattutto figlio della calura estiva. Il sospetto, purtroppo, è che dipenda da un’offerta politica così frammentata e altalenante da tenere lontano l’elettorato. Per questo, il risultato dei ballottaggi di ieri in sessantacinque Comuni può dare qualche indicazione sul futuro; ma quasi più in negativo che in positivo. I sindaci sono stati scelti da minoranze più ristrette del passato. E le coalizioni che li hanno espressi trasmettono un’immagine di precarietà soprattutto perché non riflettono un sistema politico in piena evoluzione. Su questo sfondo controverso, tuttavia, due elementi colpiscono. Il primo è il rafforzamento del Pd di Enrico Letta. E non solo perché è tornato a vincere a Parma ed ha strappato il sindaco a Monza, Alessandria, Catanzaro, Piacenza. Nonostante un declino grillino che ha i contorni della disfatta, il suo partito ha ottenuto buoni risultati in modo geograficamente omogeneo. Il secondo elemento è una sconfitta del centrodestra perfino in alcune roccaforti del nord: un epilogo che sottolinea la crisi vistosa della Lega nella sua culla territoriale e di potere.

I risultati definitivi delle elezioni comunali

Il caso più eclatante è Verona, dove si è visto il contraccolpo tossico dello scontro tra Carroccio e FI, e Fratelli d’Italia. Lì un conflitto locale si è trasformato nell’emblema di una profonda divisione interna. L’irriducibilità del contrasto tra i due candidati di centrodestra al primo turno ha causato una sconfitta pesante al ballottaggio; e aperto la strada all’elezione dell’ex calciatore Damiano Tommasi, candidato di Letta e dei suoi alleati. Il risultato assume oggettivamente un riflesso nazionale, perché incarna lo scontro strisciante per il primato tra Salvini e Giorgia Meloni. Ridimensiona le ambizioni della destra d’opposizione di poter prescindere dagli alleati: nel senso che li può «trainare» ma non rinunciare al loro apporto, sfidandoli. Evoca il rischio concreto di una spaccatura che trasformerebbe le politiche del 2023 in una roulette. Si tratta di una prospettiva che l’intero centrodestra ha sempre escluso, additando l’unità come condizione per vincere, come è successo al primo turno a Palermo e a Genova. Ma il protagonismo e la crescita di FdI sta avendo il doppio effetto di galvanizzare il partito di Meloni e acuire i timori di subalternità da parte di Lega e berlusconiani. Per questo il percorso che porterà al voto politico è una strada verso la vittoria, lastricata di potenziali inciampi. Basti pensare allo scontro irrisolto alla regione Sicilia, dove si vota in autunno; con la possibilità non del tutto remota che si replichi la «sindrome veronese». L’analisi non può ignorare la variabile grillina: un crollo che probabilmente ha ingrossato il numero delle astensioni, riproponendo le riserve a sinistra su un asse privilegiato tra Pd e M5S. La visita del «garante» Beppe Grillo oggi a Roma sa di viaggio della disperazione di un ex demiurgo al quale non riesce più la magìa: la scissione decisa dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ne è la controprova. L’implosione del M5S si sprigiona sul sistema con una carica in grado di destabilizzarlo. Ma a livello locale non ha danneggiato il Pd, tanto da far dire a Letta che il «campo largo» esiste ancora. In realtà, sulla carta, il centrosinistra partiva da posizioni perdenti. E lo schieramento da proporre alle Politiche appare tuttora allo stato embrionale.

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