I partiti e la guerra, un clima che piace a Mosca
Oggi l’Ucraina compie 31 anni. Per una curiosa coincidenza in questo stesso giorno cadono i sei mesi da quando il Paese è stato assalito dalla Russia con una violenza che nessuno fino al 23 febbraio riteneva neanche concepibile. Da allora sono passati centottanta giorni contrassegnati da distruzione, violenze, eccidi. Distruzione, violenze, eccidi ai quali i soldati di Zelensky stanno opponendo una resistenza anch’essa fino a sei mesi fa inimmaginabile. Stati Uniti ed Europa (quest’ultima con qualche defezione o significativa lentezza) hanno dato una mano — fin qui indispensabile — all’opera di contrasto dell’invasore.
Ma il tempo e i cambiamenti politici che si annunciano per l’autunno in alcuni Paesi occidentali giocano a sfavore degli aggrediti. Anche in Italia. Probabilmente «il nuovo governo italiano — ragionava ieri su queste pagine Dmitrij Suslov, direttore del Centro russo di Studi europei e internazionali, a colloquio con Paolo Valentino — aggiusterà l’approccio alla guerra e ai rapporti con Mosca». Questo, aggiungeva Suslov, «potrebbe fare da laboratorio per altri Paesi della Ue». Come dire: siamo sicuri che, dopo le elezioni, ci verrete incontro.
Considerazioni che potrebbero apparire sorprendenti dal momento che i due principali schieramenti, di destra e di sinistra, sono guidati da personalità, Giorgia Meloni ed Enrico Letta, di indubitabile fede atlantica. Più strutturata quella di Letta, ma la Meloni è stata anche attaccata con pesantezza dalla «Pravda». Perché mai allora la Meloni o Letta dovrebbero «aggiustare l’approccio alla guerra e ai rapporti con Mosca»? Evidentemente il politologo russo ritiene che, uscito di scena Mario Draghi, il governo che il 25 settembre verrà dato alla luce dalle urne italiane cercherà un modo per ammorbidire i rapporti con il Cremlino. E troverà su questo la complicità di altri Paesi europei ad ogni evidenza desiderosi di imboccare questa stessa strada. Se poi alle elezioni statunitensi di mid term dovessero prevalere i repubblicani…
A dire il vero, ci sembra che Suslov colga alcuni segnali che sono nell’aria. Nel senso che, a dispetto delle professioni di fede di Meloni e Letta, quella solidarietà all’Ucraina che fu fortissima con Draghi e Mattarella appare adesso cantilenante, rituale. A tratti insincera. Sergio Fabbrini sul «Sole 24 Ore» ha notato come il tema della guerra scatenata da Putin che avrebbe dovuto essere centrale nel dibattito in vista del voto, sia pressoché scomparso dall’agenda elettorale. Di più: il tema della guerra putiniana sarebbe oggetto, secondo Fabbrini, di una «grande rimozione».
Davvero strano. Chiunque abbia assistito alle discussioni dei mesi scorsi — soprattutto quelle televisive — ha avuto l’impressione che fossero in campo passioni autentiche. E che al momento delle elezioni (tra l’altro anticipate) il fronte autodefinitosi pacifista — vantando sondaggi da cui emergeva un consenso alle loro tesi che in alcuni momenti andava oltre il 50% — si sarebbe affrettato ad offrire agli elettori un simbolo sulla scheda di voto. Un simbolo che consentisse di contare (e far contare) gli italiani contrari a ogni ulteriore invio di armi agli ucraini, alle sanzioni e financo alla permanenza del nostro Paese nella Nato. Invece non lo hanno fatto. Alcuni di questi pacifisti si presenteranno, è vero, il 25 settembre in due o tre raggruppamenti dove si mescolano personaggi provenienti da destra e da sinistra accomunati dall’avversione nei confronti dei provvedimenti anti Covid e degli Stati Uniti. Qualcosa di simile — strani elementi marginali uniti dall’antioccidentalismo — era venuto alla luce tra il 1968 e il 1969. Poi però le indagini successive alla strage di Piazza Fontana portarono alla luce l’inquinamento di quei gruppi definiti nazi-maoisti o anarco-fascisti e ne provocarono la scomparsa. Adesso si tratta di formazioni — alcune più pure, altre per certi versi simili a quelle di cinquant’anni fa — alle quali i sondaggi accreditano talvolta lo scavalcamento della soglia del 3%.
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