Dopo le critiche alla guerra di Putin, “suicidato” anche il capo di Lukoil
Jacopo Iacoboni
Già in una situazione normale ci sarebbero ragioni per dubitare del suicidio di un grosso dirigente russo che cade, in un ospedale a Mosca, dalla finestra del sesto piano. Le finestre sono sempre troppo spalancate, in Russia. Figuriamoci adesso, nel pieno della guerra in Ucraina che non va come il Cremlino aveva previsto, e con una controffensiva ucraina che si sposa a diversi scricchiolii nel regime di Mosca, costretto e reprimere sempre più spaventosamente ogni figura di dissenso. Così ieri in pochi analisti hanno creduto che Ravil Maganov, presidente del Consiglio di amministrazione della compagnia petrolifera Lukoil, si sia davvero suicidato gettandosi nel vuoto da una stanza dell’Ospedale Clinico Centrale di Mosca. Per una serie di elementi di fatto.
Primo. Da poco prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina, hanno cominciato a morire uno dietro l’altro top manager del gas e del petrolio russo, Sergey Protosenya, Vladislav Avayev, Vasily Melnikov, Mikhail Watford, Alexander Tyulyakov, Leonid Shulman, Andrei Krukowski. Il nono era stato Alexander Subbotin, top manager di Lukoil trovato in una mansion alla periferia di Mosca. Le forze dell’ordine dissero che era morto per insufficienza cardiaca, che lui e la sua sicurezza personale avevano trascorso diversi giorni a casa di amici di famiglia. Le dinamiche sembrarono talmente poco credibili da suonare tragicomiche: Subbotin si sarebbe presentato «in uno stato di grave intossicazione da alcol e droghe il giorno prima» della sua morte, a casa di uno sciamano. Il corpo era stato scoperto in una stanza del seminterrato, utilizzata dallo sciamano per «riti vudù giamaicani». A Ferragosto c’è stato un caso che sarebbe il decimo, una morte sospetta a Washington, Dc, di Dan Rapoport finanziere lettone che ormai viveva negli Stat Uniti, sponsor di Alexey Navalny, amico di Bill Browder, il finanziere del fondo Hermitage diventato attivista per i diritti umani dopo l’assassinio in carcere del suo collaboratore Sergey Magnitsky (Browder lanciò una campagna per un Magnitsky Act poi adottato nei principali pasi occidentali). Anche Rapoport è morto cadendo nel vuoto da un attico, con dubbi sempre crescenti nelle ultime ore da parte di alcuni servizi occidentali.
Secondo: in Lukoil, secondo quanto riferiscono a La Stampa fonti molto a conoscenza del dossier, è in corso una scatenata guerra di potere tra chi sostiene una fazione ultra realista e putiniana, e qualcuno che ha voluto parlare contro la guerra in Ucraina, forse sostenuto da un pezzo stesso dei servizi. All’inizio di marzo, per capirci, il consiglio di amministrazione di Lukoil aveva chiesto pubblicamente la fine del «conflitto militare» in Ucraina. I membri del board avevano espresso «preoccupazione per i continui tragici eventi in Ucraina e profonda solidarietà a tutti coloro che sono stati toccati da questa tragedia». Critiche che erano state probabilmente alla radice delle strane e repentine dimissioni di Vagit Alekperov, lo storico amministratore delegato dell’azienda, che era stato appena colpito dalle sanzioni e dal divieto di viaggio nel Regno Unito, diventato il principale hub estero dell’azienda (il secondo è l’Italia: Lukoil gestisce distributori in Calabria e Sicilia soprattutto, una raffineria, a Priolo, di fatto ferma dopo la guerra in Ucraina).
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