“Il vino georgiano di Stalin, la cena a Mosca per i 70 anni: Gorby editorialista illustre”

Ci ritroviamo così nella hall dell’imitazione di un albergo americano, come tanti ce ne sono ormai, nella Mosca in piena trasformazione che sempre più sta prendendo le sembianze di un luna-park. La serata è gelida. Una nevicata pomeridiana ha lasciato tracce fangose all’aperto. Una piccola folla è all’ingresso, composta soprattutto da giovani donne che rallentano l’accesso perché devono togliersi stivali e anfibi da neve per calzare scarpe da sera con tacchi alti. Presto o tardi giunge anche stavolta il nostro momento. Veniamo accompagnati all’ascensore e poi fatti entrare in un salone piuttosto grande, tipico da ricevimenti, al centro del quale è un piccolo palcoscenico con strumenti musicali di un’orchestra.

Gorbaciov, cordiale e allegro più di sempre, è a un tavolo da dieci persone, vicino proprio al palcoscenico.

Non avremmo mai pensato di essere invitati a sedere con lui, eppure è così. Mentre gli ospiti affluiscono, cercando collocazione, Chiesa intrattiene Gorby e la musica comincia a diffondersi nella sala, rendendo più complicato seguire la conversazione. Davanti a ogni posto, oltre alla normale apparecchiatura, sono allineati quattro o cinque piccoli bicchieri da vodka, che alcuni dei presenti hanno già cominciato a usare per aperitivo nella maniera tradizionale, che prevede di precipitarli per terra e romperli in segno d’augurio. Ma il padrone di casa aspetta a bere, riservandosi con grande cortesia di presentare uno ad uno gli altri ospiti che stanno per collocarsi al suo tavolo.

Sono un gruppo di intellettuali, amici e non, un pezzo di società civile, grati al leader che ha ridato loro la libertà. Un famoso scrittore con il volto percorso da rughe profonde. Un pittore con qualche traccia di colore sotto le unghie. Un poeta pensoso che non proferisce parola. Una donna bionda leader di un gruppo femminista. Ultimo, entra in sala un cantante, che si avvicina a Gorby solo per salutarlo e conoscere noi italiani, poi sale al centro del palcoscenico, affrettandosi a regolare l’asta del microfono. Incredibilmente, questo insieme così vario e così dichiaratamente russo, nelle facce e nei movimenti, ha qualcosa di familiare, per noi. Chissà come, ci chiediamo. Ed è Chiesa, con un colpo di genio, ad azzardare una spiegazione: in un modo o nell’altro, per ragioni politiche o professionali, ciascuno di noi ha da tempo consuetudine con il Pci. La scena di quel tavolo, la fila di quei volti, suggeriscono un forte senso di parentela tra il partito padre, o madre, il Pcus, e i cugini italiani. Lo scrittore ricorda Moravia. Il pittore, Guttuso. Il poeta, Pasolini. La pasionaria bionda, la Castellina. E il cantante, con un po’ di sforzo, può perfino assomigliare a Claudio Villa. Ecco il perché della reminiscenza. Oppure, sarà stata solo la fantasia che ci ha spinto a formulare questo strano confronto, pur di sentirci a casa e non più soli nella notte gelata di Mosca.

LA STAMPA

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