La potentissima lobby che non ha interesse a spegnere l’inflazione
C’è un «grosso, sporco segreto» che ci impedirà di venire a capo dell’inflazione? Se c’è, si chiama debito.
L’inflazione lo riduce, e quindi c’è una lobby potentissima che ha un inconfessabile interesse a non stroncare gli aumenti dei prezzi: i grandi debitori del pianeta, a cominciare dagli Stati.
Un tema che estraggo dal Forum Ambrosetti di Villa d’Este-Cernobbio riguarda lo scenario dei tassi d’interesse.
Siamo alla vigilia di nuovi rialzi sia da parte della Federal Reserve sia da parte della Bce. Quando si parla di recessione in arrivo – o di recessione già iniziata di fatto – una delle cause che vengono citate è la «stretta monetaria». Ma di quale stretta parliamo?
Per adesso i tassi d’interesse rimangono in larga parte negativi, cioè inferiori all’inflazione.
Questo è vero per i tassi direttivi delle banche centrali, che sono una misura del compenso richiesto per fornire credito alle banche commerciali; è vero anche per i rendimenti dei titoli pubblici. Per esempio, negli Stati Uniti i buoni del Tesoro a breve termine (biennali) danno un rendimento del 3,5% circa. Quelli decennali rendono poco meno del 3,3%. Questi interessi pagati dal Tesoro di Washington agli investitori, vanno paragonati con un tasso d’inflazione che è al 9% annuo. Il tasso reale è il rendimento depurato dell’inflazione. Rimane pesantemente negativo, dunque, nonostante i recenti aumenti dei tassi. (Eravamo partiti da zero).
Il concetto di tasso reale non è teorico, ha conseguenze pratiche importanti. Un rendimento negativo significa che i risparmiatori non sono protetti dall’erosione di valore dei loro risparmi: i rendimenti che ricevono non bastano per mantenere il potere d’acquisto dei loro soldi. Significa, ad esempio, che molti pensionati o futuri pensionati stanno diventando più poveri se i loro risparmi sono investiti in titoli del Tesoro: quando verranno a scadenza, il capitale si sarà svalutato.
Un rendimento negativo genera, a livello macroeconomico, un trasferimento di ricchezza dai creditori ai debitori. E sappiamo che tra i più grandi debitori ci sono gli Stati. Dunque, malgrado il rincaro del costo del denaro, gli Stati stanno alleggerendo il peso dei loro debiti con l’inflazione.
È un meccanismo classico che ha operato in altri periodi storici: l’inflazione diminuisce il peso reale dei debiti, pubblici e privati.
La «stretta» monetaria in atto è in realtà assai poco restrittiva, almeno finora, se paragonata a quello che le banche centrali fecero negli anni Ottanta per venire a capo dell’inflazione che era divampata a partire dai due shock petroliferi degli anni Settanta. Negli anni Ottanta, guidati dal presidente della Federal Reserve Paul Volcker, i banchieri centrali riuscirono a ripristinare dei rendimenti reali positivi. Oggi sono ben lontani da quel traguardo. Per arrivare ad avere dei tassi superiori all’inflazione la Fed e la Bce dovrebbero continuare molto a lungo ad operare rialzi molto robusti. Alcuni degli esperti presenti al Forum Ambrosetti di Cernobbio pensano che le banche centrali non saranno così determinate come lo furono negli anni Ottanta e rinunceranno ad aumentare i tassi fino al livello che Volcker avrebbe considerato adeguato per stroncare l’inflazione.
I banchieri centrali di oggi «si spaventeranno prima»”, ha sostenuto qualcuno. Vuoi per le conseguenze sociali di una stretta che porterebbe un pesante ritorno della disoccupazione. (Ieri il dato Usa di agosto è stato positivo, +315.000 posti di lavoro, ma in rallentamento rispetto ai mesi precedenti). Vuoi perché viviamo in un mondo con troppo debito, e troppo debito sovrano: gli Stati hanno un enorme interesse a lasciar correre l’inflazione per ridurre il peso dei propri debiti; mentre un aumento troppo sostenuto dei tassi renderebbe più probabili delle bancarotte sovrane (anche l’Italia entrerebbe in una fase di grande fragilità visto il suo livello di debito pubblico).
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