L’asse invisibile tra Draghi e Meloni

FRANCESCO OLIVO

ROMA. I sondaggi sono così chiari che ormai nei palazzi si immagina già la scena della campanella. Tutti concordano: il giorno del passaggio di consegne tra Mario Draghi e Giorgia Meloni non sarà soltanto sereno, ma persino cordiale, «ci saranno sorrisi», prevedono sia gli uscenti che gli entranti. Mentre la campagna elettorale deve ancora entrare nel vivo, si pensa già al dopo, con l’obiettivo di una transizione morbida. Il capo del governo e la presidente di FdI, è noto, si parlano spesso, un’interlocuzione fluida nata sin dai primi giorni di vita dell’esecutivo, diventata costante grazie all’appoggio dell’opposizione alle scelte italiane sulla guerra in Ucraina. Ora siamo in una fase diversa, ci sono dei dossier che passeranno presto di mano, scelte strategiche da portare avanti e un posizionamento geopolitico da non mettere in discussione. La situazione è drammatica per famiglie e imprese, «tremano i polsi all’idea di governare» dice Meloni e le telefonate si intensificano, comprese quelle con il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che potrebbe rimanere al suo posto anche nella prossima legislatura. Il filo rosso non si interrompe.

Sulla carta si avvicenderanno governi molto diversi, per natura, uno tecnico e l’altro politico, e per approccio ideologico, da un premier banchiere di ispirazione liberaldemocratica si passa a una presidente nazionalista, con un passato di destra dura. Eppure, tra le mille diversità, e forse proprio per l’assenza di concorrenza diretta, tra i due la sintonia è grande, non solo quella personale, maturata nel corso dell’ultimo anno e mezzo, ma anche, in fondo, quella politica, almeno su alcune grandi questioni: politica estera (sostegno all’Ucraina) energia (negoziato per un Recovery europeo) e debito pubblico (no allo scostamento). Nei comizi in giro per l’Italia, l’ultimo ieri a Perugia, Meloni dal palco attacca il “governo dei migliori, ma evita ogni accusa al presidente del Consiglio, seguendo una linea tenuta sin dalla nascita dell’esecutivo: accusare la maggioranza, ma non il premier. Al di là della stima reciproca (a Draghi Meloni fece un’ottima impressione già al primo incontro, nel corso delle consultazioni), c’è chi vede in questo rapporto una convenienza reciproca, all’una fa comodo avere uno scudo dal prestigioso leader europeo, e all’altro può servire avere un’alleata a Palazzo Chigi in vista di nuove possibili avventure, in Europa (presidenza della Commissione, del Consiglio Ue) o in Italia, (il sogno del Quirinale potrebbe tornare vivo, specie in caso di riforma presidenzialista).

Nel quadro dirigente di Fratelli d’Italia, quando si affronta il tema, tutti citano la stessa cosa: il discorso di Draghi a Rimini dello scorso 24 agosto. Nel suo intervento davanti alla platea di Comunione e Liberazione il presidente del Consiglio, dopo aver criticato duramente ogni tentazione sovranista, ha detto: “Sono convinto che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili: l’Italia ce la farà”. Mentre il centrosinistra denunciava il pericolo nero, è la lettura che ne fanno a destra, il premier ha voluto dire che non si corre nessun rischio. Ma il circolo ristretto di Meloni ha apprezzato anche la fine di quel discorso, dove si sottolineava in sostanza di come l’agenda Draghi, rivendicata dal Terzo Polo e in parte dal Pd, fosse un’astrazione e che l’unica agenda che conterà è quella che decideranno i cittadini italiani con il voto.

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