Casini il democristiano, Sgarbi il dadaista: il duello degli opposti in scena a Bologna
GABRIELE ROMAGNOLI
Curiosamente alcuni attori romani hanno scelto di girare un video in cui fanno sapere per chi voterebbero se dovessero farlo a Bologna. Molti bolognesi, invece, preferirebbero votare altrove per non essere costretti a quella scelta. Casini o Sgarbi? Non esattamente zuppa o pan bagnato. Piatti dai sapori diversi, ma tradizionali, quasi antichi, un po’ fuori tempo e luogo, almeno per la collocazione sulla scheda: tagliatelle o salama da sugo al sushi bar.
Il tempo delle polemiche interne è scaduto, ora questo è il duello e non resta che assistervi, con l’impressione di spettatori d’un nuovo film per attori datati, nei ruoli rimasti disponibili dopo la rivoluzione delle piattaforme. Non c’è più il cinema d’una volta, ma loro sì.
Il primo dato di questa sfida è proprio il tempo. Erano gli Anni Ottanta quando entrambi si affacciarono sulla scena. Sembravano vite parallele. Uno politico fin dall’adolescenza, l’altro critico d’arte reso improvvidamente famoso da un insulto lanciato in televisione. Quelle specie di personaggi che s’incontrano soltanto all’inizio di una barzelletta per sottolineare la surrealtà della situazione. Chi a Bologna viveva in quegli anni ha percepito l’ascesa di Casini come inevitabile e al tempo stesso infaticabile, curata nei particolari per essere attuata dal versante più arduo della montagna (quello dc nella città rossa). Alle elezioni politiche del 1983, in cui entrò alla Camera dei deputati, feci lo scrutatore al seggio e ricevetti una sua lettera di ringraziamento per il servizio reso nella consultazione che gli era valsa l’ingresso in Parlamento. Sgarbi era allora una figura elitaria, di leggendaria raffinatezza, le cui lodi avrei sentito tessere da Franco Maria Ricci, signore della materia. Non pareva probabile dovessero mai incrociarsi. Come molte cose accadute nella storia recente di questo Paese la causa predisponente è stata Silvio Berlusconi. Nella sua spregiudicata attività di federatore mise insieme tutto quanto gli poteva tornare utile per raccogliere consensi: nazionalisti e secessionisti, grandi legulei e piccoli ribaldi. Inevitabilmente: il diavolo e l’acquasanta. Un ex democristiano e un ex di qualunque cosa. Casini potrebbe legittimamente affermare di non aver mai cambiato partito, sono stati i partiti a cambiare. Se è vero, come alcuni sostengono, che «il Pd è la nuova Dc», hanno ristrutturato la casa con lui dentro, unendo due appartamenti. Sgarbi invece è stato tutto, da monarchico in gioventù a ogni tassello dell’arco costituzionale repubblicano. Un dadaista politeista che cercò di candidarsi nella stessa elezione per il Pci e il Psi. È andato dai Radicali a La Destra passando per Pri e Pli e quando i partiti non bastavano se li inventava, mettendoci il nome e la faccia, poi diffidando dall’utilizzarli. Un tourbillon non privo di intuizioni, soprattutto nella fase nascente, se si considera che nel 1977, mentre Casini si teneva alla larga dai disordini nelle strade bolognesi in cui il suo futuro sodale Cossiga mandava i carri armati, Sgarbi pubblicava “Il populismo nella letteratura italiana del Novecento”.
L’altro incrocio delle due esistenze avvenne nel 2008, quando Sgarbi diventò sindaco di Salemi, comune siciliano, sostenuto dall’Udc di cui era leader Casini. Di lì a poco però si sarebbe verificata la rottura di quest’ultimo con Berlusconi, celebrata dalla simbolica presenza di un cactus sulla sedia dell’ospite, una performance così fantasiosa e malevola che alcuni critici potrebbero attribuirla alla scuola dello stesso Sgarbi.
Che a forza di vivere e trasformarsi finissero per scontrarsi in una specie di novecentesco play off era qualcosa che soltanto la legge dei grandi numeri poteva mettere in conto.
Che Sgarbi si presentasse come alfiere della destra, possibile. Casini della sinistra, un po’ meno e infatti sono occorse molte spiegazioni e si vedrà quanti abbiano convinto. Viceversa, che il duello avvenisse a Bologna è logico per quanto riguarda Casini, meno per Sgarbi, che è nato a Ferrara. Non è un derby stracittadino, come nel basket, è uno di quelli calcistici dove la città ha una fede sola. Eppure Sgarbi ci prova, ricorda di avere studiato e insegnato lì e si fa forte della sua ubiquità, come nell’arco costituzionale, così sul territorio. È stato sindaco, oltreché in Sicilia, nel Lazio e candidato in Lombardia. Assessore (alla rivoluzione) in Piemonte e nelle Marche. Più che extra è sovra-territoriale. Incombe. La sua è una strategia alla von Clausewitz. Ha individuato nello schieramento avversario il “punto critico”. È quello su cui si regge l’equilibrio di un apparato e che, se colpito, può provocarne il crollo. Casini è il totem che mira ad abbattere. Infatti nel cartone animato “Sgarbiman” (ora si presenta con la maglia del supereroe sotto la camicia) si lancia contro il suo mezzobusto per «liberare la città». L’altro privilegia una strategia alla Sun Tzu: cerca di vincere senza combattere, evita di demonizzare. In una intervista in bilico tra senso delle cose e astuzia smussa ogni angolo possibile, riducendo le differenze d’opinione a questione generazionale.
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