Analisi di una rincorsa, il Pd prova a ribaltare una sconfitta annunciata
MARCELLO SORGI, FEDERICO GEREMICCA, FABIO MARTINI, CARLO BERTINI
La leadership. Il segretario in trincea senza una strategia
MARCELLO SORGI
Enrico
Letta ha portato con dignità l’abito della sconfitta annunciata fin dal
primo giorno. Ma senza rassegnarsi mai. Non essendo riuscito a formare
coalizione del “campo largo”, in grado di competere ad armi pari con
quella di centrodestra, le ha provate tutte: è partito all’attacco con
la mostrificazione di Meloni – fascista, attentatrice della
Costituzione, antieuropea, antiabortista – salvo accorgersi che non
funzionava perché la gran parte degli elettori non la considerano tale.
S’è impegnato nella gara a due con l’avversaria, puntando almeno a fare
del Pd il primo partito. Ma i sondaggi, fin da subito, si sono rivelati
impietosi, e il distacco finale tra Fratelli d’Italia e Pd potrebbe
addirittura essere a due cifre. Poi ha tentato la spallata per la “non
vittoria” del centrodestra, quanto a dire rosicchiare più senatori
possibile perché far sì che il possibile nuovo governo non sia in grado
di ottenere una maggioranza solida a Palazzo Madama. La manovra è ancora
in corso, dove possa arrivare si vedrà domani sera. Ed è a questo
estremo espediente che sono legate le speranze del Pd di rientrare in
gioco, alle prime eventuali difficoltà del nuovo esecutivo, più o meno
come avvenne nel passaggio dal Conte 1 al Conte due nella legislatura
appena conclusa.
Tutto questo rivela un’assoluta mancanza di strategia del segretario. Se l’unico orizzonte possibile è quello di un nuovo ribaltone in cui una parte degli sconfitti si accordano con una parte dei vincitori, magari a discapito di chi ha vinto più di tutti, il Pd, per questa strada, è destinato a perdere un’altra fetta di elettori, avviandosi verso una lenta scomparsa, com’è accaduto ai socialisti francesi. Letta, che ha insegnato a lungo politica a Parigi, queste cose le sa benissimo; ma sa anche di non poter cambiare nulla nel Pd, perché in ogni caso il suo destino è segnato.
Le alleanze. La fine del campo largo e l’identità da ritrovare
FEDERICO GEREMICCA
Solo
l’apertura delle urne potrà forse confermare una sensazione palpabile
ormai da settimane: e cioè che la corsa del Pd sia finita prima ancora
di cominciare. Sia finita, per l’esattezza, all’ora di pranzo di
domenica 7 agosto quando – ospite in tv da Lucia Annunziata – Calenda
annunciò la rottura del patto siglato con Letta qualche giorno prima.
Era la fine del campo largo e, più semplicemente, della possibilità di
competere con l’avversario.
Qui non ragioneremo sulle responsabilità di quella spaccatura, ma sulla via imboccata dai Democratici da quel momento in poi. Ai più è apparsa confusa, pallida e segnata da qualche errore di miopia: immaginare, per esempio, che la campagna si sarebbe combattuta intorno a Draghi e alla sua agenda; pensare, poi, che il pericolo-fascista fosse tema ancora mobilitante; retrocedere, infine, sulla difesa della Costituzione e del sistema parlamentare. La battaglia, invece, si è svolta come sempre all’italiana: promesse, taglio di qualunque tassa, immigrazione, bollette e l’impegno di «mettere soldi in tasca agli italiani». Temi posti in maniera discutibile, certo, ma concreti: assai più concreti del parere di questo o quel leader europeo sulle faccende nostrane. Se le cose dovessero andare come ipotizzavano i sondaggi, in casa Pd ci sarà molto da ragionare. Si comincerà dal destino di Letta, naturalmente. Ci sta. In fondo, è anche il modo migliore per sfuggire la realtà, che oggi pone non tanto problemi di leadership quanto l’urgenza di ridare un’anima, una ragione ed un profilo ad un partito che nell’ultimo decennio sembra aver avuto un solo credo: quale che sia l’emergenza, stare al governo comunque e con chiunque.
La comunicazione. Buoni contro cattivi, unico obiettivo: Meloni
FABIO MARTINI
I
buoni contro i cattivi: non c’è stato spazio per molto altro. Per
Enrico Letta la campagna elettorale e dunque la comunicazione sono state
concentrate su un unico messaggio: la battaglia vera è tra due soli
contendenti, la sinistra, incarnata dal Pd e la destra di Giorgia
Meloni. E dunque, elettore di sinistra – moderato o radicale che tu sia –
«scegli»: vota utile, vota Pd. Certo, dai Dem sono partiti anche
messaggi mirati su alcuni target (giovani, insegnanti, professioni
intellettuali, over 65), ma alla fine l’unico messaggio è stato sempre
quello: buoni contro cattivi. Una scelta scandita da Letta – ecco il
punto – in modo prevalentemente politicista: anziché spiegare come la
“cattiveria” dei destri si sarebbe tradotta nella vita quotidiana, le
parole usate sono state quasi sempre prive di empatia per gli elettori
in carne ed ossa. L’Europa? Letta ha denunciato i pericoli di una
rottura politica e anche nel comizio finale di piazza del Popolo l’ha
evocata retoricamente («Viva l’Europa!»), senza mai puntare sulle
ricadute sulle vite concrete degli italiani: una possibile “fuga dei
capitali” europei già stanziati per l’Italia, o una possibile fiammata
speculativa che finirebbe per colpire i più deboli, chi vive di
stipendio, di pensione, di piccola impresa, di commercio, o i giovani
che sperano in un futuro. Pontida? Bollata come una provincia
dell’Ungheria, anziché puntare sul cuore del problema: con una destra
che rompesse con l’Europa, la prossima Ungheria sarebbe l’Italia e
dunque le future vittime sarebbero sempre loro, gli italiani. Alle fine
la scommessa di Letta è tutta sugli elettori politicizzati, sulla
rianimazione dello zoccolo duro. Sul richiamo della foresta.
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