Partiti e governo, qual è la posta in gioco
di Roberto Gressi
Si prospettano due Italie, più divise di prima, tra Nord e Sud. In ballo, a seconda di chi vinca, anche la riforma dello Stato e la politica internazionale, a partire dalle relazioni con la Ue
È una partita decisiva quella che si apre questa notte, quando a urne chiuse arriveranno i risultati. Decisiva come in tutte le elezioni politiche ma più di tante altre elezioni politiche. Per prima cosa perché questa legge elettorale, che ci ha dato tre maggioranze diverse in poco più di quattro anni, sembra destinata questa volta a tracciare un solco netto tra vincitori e sconfitti. Una percentuale del 44 per cento e la conquista dell’ottanta per cento dei seggi uninominali è sufficiente a costituire una maggioranza numericamente solida, sia alla Camera che al Senato. Ma non è solo questione di numeri. Sembra più che probabile la fine dei governi di unità nazionale, rifiutata da tutti i leader principali, ad eccezione di Carlo Calenda. La collocazione internazionale dell’Italia non è in discussione, ma il modo in cui si sta in Europa è un capitolo assolutamente aperto. Si apre una partita robusta sulla riforma dello Stato, tutti vogliono ridurre le tasse ma in modi assolutamente diversi, è scontro sul futuro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ci sono letture diametralmente opposte su come si affronta la questione degli immigrati, sui diritti civili, sull’ambiente. Si prospettano due Italie, più divise di prima tra Nord e Sud. E sono in ballo i destini dei leader, sia per i vincitori che aspirano a posizioni di vertice, sia per gli sconfitti: a seconda dei voti che prenderanno rischiano la cacciata.
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Divisi sull’Europa
Sull’Europa e sulla guerra in Ucraina non mancano le divisioni all’interno delle varie alleanze. Giorgia Meloni si è schierata senza dubbi contro Putin e per il sostegno, anche militare, all’Ucraina. Più ambigue le posizioni di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, più sensibili alle ragioni della Russia. Fratelli d’Italia vuole cambiare il modo di stare in Europa, «la pacchia è finita», ha detto Meloni, e rivendica una soglia più alta nella difesa dell’interesse nazionale. Letta la accusa di volere un’Europa dei veti, incapace di decidere a maggioranza e di conseguenza più debole nello scenario internazionale. Ma anche il Pd ha tra i suoi alleati Fratoianni, contrario all’invio di armi a Zelensky e tiepido sulle sanzioni, con posizioni assai simili a quelle di Conte.
Il presidenzialismo
Ma è anche sulla forma dello Stato che si annuncia battaglia. Giorgia Meloni ha l’elezione diretta del presidente della Repubblica come primo punto del suo programma, che considera il sistema più capace di garantire che giochi di palazzo non cambino il senso del voto popolare, ed è pronta a procedere anche senza trattative con la sinistra. Ogni tipo di proiezione esclude però che possa raggiungere la maggioranza dei due terzi, e quindi l’eventuale riforma dovrebbe passare comunque per un referendum confermativo. C’è il no gridato del Pd, mentre Matteo Renzi ha aperto al dialogo. La partita, e la maggioranza e il governo che ne uscirà, sarà tanto più credibile quanto più saranno gli italiani che saranno andati a votare. Per ora i sondaggi annunciano un’astensione più robusta di quanto si sia verificato altre volte, ma il risultato non è scritto e bisognerà vedere se le contrapposizioni degli ultimi giorni saranno riuscite a smuovere l’elettorato. E se ci saranno differenze sostanziali tra Nord e Sud, con i Cinque Stelle che hanno giocato gran parte della loro campagna sul reddito di cittadinanza, riproponendo in qualche modo la contrapposizione tra una parte dell’Italia che si affida all’assistenzialismo e la parte più produttiva del Paese.
Il destino dei leader
Sarà un voto destinato a segnare robustamente il destino dei leader. Giorgia Meloni gode della prospettiva di un successo annunciato. Ma saranno le dimensioni di questo successo a stabilire se sarà lei, senza dubbio alcuno, ad essere la prima donna d’Italia a diventare presidente del Consiglio. Cosa che avverrà certamente se conquisterà ben più voti dei suoi alleati messi insieme. Il suo principale competitor, Enrico Letta, sconta l’handicap di non essere riuscito a mettere in piedi un’alleanza larga e punta molto sul voto proporzionale. Una soglia importante per il suo partito è quella del venti per cento. Sopra quella percentuale c’è almeno la possibilità di preparare un rivincita, robustamente al di sotto non sarebbe facile evitare le dimissioni. Rischia molto anche Matteo Salvini, che ha visto progressivamente erodere il suo consenso, anche nelle roccheforti del Nord, per lui il dieci per cento è il minimo sindacale.
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