L’Italia e l’abiura mai fatta
Perfino nelle disposizioni transitorie finali della Costituzione c’è una prova di cautela nel giudizio sul regime
Nel perenne revival del fascismo a scopo etico-ammonitorio che si celebra sui banchi delle nostre librerie (da non confondere con i veri libri di storia che sono tutta un’altra cosa) quest’anno si è portato molto il tema «Ma perché siamo ancora fascisti» declinato anche come «Non abbiamo fatto i conti col fascismo», «Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini» e così via moraleggiando e biasimando. Col fine, per l’appunto, di deprecare il fatto che noi italiani saremmo ancora e sempre innamorati del duce, non ci vergogniamo abbastanza di lui e del suo regime, insomma non avremmo compiuto, a differenza dei virtuosi tedeschi, quell’abiura collettiva della dittatura e delle sue malefatte, necessaria per poter essere dei veri democratici. Come del resto starebbero a dimostrare i risultati delle elezioni che si sono appena svolte.
Il fatto è che agli italiani, in realtà, quell’abiura nessuno l’ha mai chiesta. Tanto meno quando era più urgente e giusto farlo, e cioè all’indomani del crollo del fascismo e della catastrofe bellica. In questo senso ha un valore paradigmatico la dichiarazione che il 22 giugno 1944 fece il governo italiano (si trattava del governo presieduto da Ivanoe Bonomi: il primo, sottolineo, formato da tutti partiti del Comitato di liberazione nazionale) con parole che meritano di essere ricordate. E che saranno in seguito, in un modo o nell’altro, ripetute per centinaia di volte nelle cronache e nei discorsi degli esponenti politici dell’epoca.
Diceva quel testo: «Il Consiglio dei ministri nella sua prima ordinanza constata che esso, per la sua origine politica, rappresenta quella grande maggioranza del Paese che già nel 1940 era schierata contro la dominazione fascista e contraria all’ingresso in guerra dell’Italia accanto alla Germania hitleriana. Perciò come suo primo atto il Consiglio afferma che soltanto il fascismo è responsabile dell’adesione dell’Italia al patto tripartito e dell’ingresso nella guerra (…). La nazione, non più sottoposta al più oppressivo dei sistemi di polizia ha saputo riprendere in mano le sue sorti e decidere liberamente del proprio destino».
Ma come ho detto di citazioni analoghe c’è solo l’imbarazzo della scelta. Mi limiterò ad un’altra soltanto, per la particolarità della sua sede e della data. È tratta dall’editoriale dell’organo del Partito d’Azione, L’Italia libera, del 2 giugno 1946, intitolato «Perché devi votare per la Repubblica». La risposta del giornale è: «perché votando la monarchia fascista assumeresti la responsabilità di una politica passata e futura di guerra e di rovina. Solo la Repubblica è capace di liberarti della responsabilità della guerra monarchico-fascista».
Come si vede l’esempio dei mancati conti con il fascismo venne agli italiani dall’alto e venne proprio dai partiti antifascisti. I quali a mio giudizio avevano peraltro ottime ragioni per scegliere questa via e non quella dell’invito all’esame di coscienza e all’autodafé collettivo. Due ragioni in particolare. Innanzitutto i partiti antifascisti erano convinti giustamente che, per quanto fragilissima, la dissociazione di responsabilità degli italiani dal fascismo (peraltro convalidata dall’esistenza della lotta armata delle formazioni partigiane) era comunque un argomento indispensabile per cercare di ottenere dai nostri vincitori le migliori condizioni di pace possibili. In secondo luogo — e forse innanzitutto — essi si rendevano conto che una strada diversa — cioè ammonire il Paese all’abiura e al pentimento — non avrebbe fatto altro che sancire la loro estraneità rispetto ad esso, accrescere la già ampia diffidenza che in molti suscitava il loro ruolo di oggettivi alleati dei nemici di ieri, di gente salita al potere solo grazie alla sconfitta italiana. (Ciò che, detto tra parentesi fu anche il motivo per cui non fu estradato nei vari Paesi stranieri che ne avevano fatto richiesta neppure uno delle decine di criminali di guerra del Regio Esercito).
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