Giuseppe Provenzano: “Il Pd deve guarire dal governismo e costruire una vera alternativa”
Annalisa Cuzzocrea
Peppe Provenzano non si candida alla segreteria del Pd. E non è che
voglia arrendersi, il numero due di Enrico Letta. Non vuole suonare la
campana a morto della comunità che rappresenta, ma pensa che la
discussione sulla sconfitta elettorale e soprattutto su quel che c’è da
fare adesso «sia molto di più di una gara o una gazebata». E che il
futuro del Pd dipenda dalla capacità di costruire «un’opposizione in
grado di creare un’alternativa».
La richiesta al Pd di
abbandonare nome e simbolo per andare verso qualcosa di nuovo arriva da
più parti, perfino da una sua ex presidente come Rosy Bindi. Lei come
risponde?
«A me sembra che rischiamo di alimentare ulteriore
confusione. Di fronte al governo più a destra della storia della
Repubblica, non credo che sciogliere il primo partito di opposizione
possa servire. Dobbiamo invece discutere a fondo. Anzi, forse dovremmo
farlo per la prima volta e non da soli».
Ammetterà che il Pd doveva essere un argine ben più forte all’avanzata della destra, ma che quell’argine non ha tenuto.
«Siamo
stati sconfitti, ma non siamo vinti. Non c’è stata un’onda nera, la
destra ha preso i suoi voti, ma attenzione, l’onda potrebbe arrivare
adesso se lasciamo sguarnito il fronte dell’opposizione. Mi preoccupa
che la discussione tra di noi diventi autoreferenziale e astratta se
elude questo fatto nuovo, che ha rilevanza europea e mondiale».
Quindi cosa bisognerebbe fare adesso, subito?
«Costruire
un nuovo partito democratico. Affrontare finalmente il nodo della sua
identità, sapendo che questo dipenderà dalla capacità di legare
l’opposizione in Parlamento al bisogno di alternativa che crescerà nel
Paese».
E da dove si parte?
«Dalle fondamenta e non dal
nome. In questo senso l’opposizione può essere perfino un’opportunità.
Si dice spesso che siamo nati tardi, la verità è che siamo nati vecchi.
Siamo nati al governo, mentre esplodeva una questione sociale che ha
minato le nostre democrazie dall’interno. Le nostre risposte sono state a
lungo deboli. Il problema non è stato solo Renzi, la lotta alle
disuguaglianze non era nel certificato di nascita del Pd».
Molto governismo, poche battaglie?
«Il governo senza consenso è stato il suo errore di fondo. Ogni volta c’è stata una ragione, una giustificazione, però alla lunga questo toglie credibilità. Se non hai un’identità riconoscibile è il governo stesso la tua identità. Non possiamo dire, come Jessica Rabbit, che ci disegnano così. Perché noi siamo così, a tutti i livelli, dal nazionale al locale. Svolgiamo una funzione di governo, ma non una funzione politica. Quella per cui le persone o i gruppi sociali ti affidano le loro istanze e sanno che le porti avanti».
Come si recupera quella funzione?
«Se siamo
capaci di rispondere alla domanda di fondo: perché la povera gente non
ci vota e come riconquistare il suo consenso senza cedere quello che già
abbiamo e che non dobbiamo dare per scontato. Non puoi eludere a lungo
il tema dell’identità, tanto più quando gli elettori, sia adesso che nel
2018, ma già nel 2013, votano un simbolo, come se ci fosse il
proporzionale. Scelgono chi li rappresenta in quel momento».
Scegliere un’identità significa lasciare andare via un pezzo? Scindersi ancora?
«Solo
sciogliere le contraddizioni. In 11 anni di governo, su 15 di vita,
abbiamo detto tutto e il contrario di tutto. Un grande partito
dev’essere plurale, ma su alcuni punti fondamentali non puoi avere due
linee. Perché se un segretario, forse tardivamente, dice in campagna
elettorale che il Jobs Act va superato e un aspirante segretario dice
che invece no, allora un operaio che cosa deve pensare? Io ci sono
andato alla Fiom a Torino, è esattamente questo che mi rimproveravano».
Le due anime originarie, quella di centro e quella di sinistra, non possono andare più insieme?
«Non
faccio una discussione ideologica, sono un socialista, ma anche nel
socialismo europeo bisogna fare chiarezza visto che ci convivono gli
spagnoli e i falchi del rigore nordici. Basta guardare alla vita delle
persone. L’altro giorno a Firenze un ragazzo di 26 anni è morto per
consegnare una cena. Il giorno dopo l’azienda per cui lavorava gli ha
mandato una mail di licenziamento per non essersi loggato sulla
piattaforma in tempo. Un errore, si sono scusati. Se di fronte a
un’ingiustizia del genere non si capisce immediatamente che è il Pd il
partito che ti difende, allora non serviamo a niente».
Il segretario ha annunciato un congresso, sono scattate le
prime candidature, si riparte dai nomi e dalle alleanze. C’è qualcosa
che non funziona in tutto questo?
«Peggio della sconfitta, è
stata la reazione alla sconfitta. Serviva una certa solennità, e invece
è partita una ridicola ridda di nomi. Ho visto persino alcuni
candidarsi dicendo che non gli piacciono le autocandidature – quelle
degli altri, evidentemente».
Traduco: Stefano Bonaccini. Lei è considerato uno dei possibili rivali. Si candiderà?
«Vorrei
dare un modesto contributo, prima della discussione politica vera che
faremo domani in Direzione. Io non mi candido. È un nome in meno. Voglio
confrontarmi sulla politica. Vincenzo Cuoco diceva: invece che dei
princìpi si discuteva dei prìncipi. Dovremmo fare il contrario».
Il percorso congressuale appare lento, non all’altezza delle urgenze del Paese.
«Partiamo
subito. Chiamiamo a raccolta singoli, associazioni, sindacati,
allarghiamo la nostra discussione e chiariamoci sulle scelte di fondo.
Dall’esito di questa prima fase dipende la capacità della seconda di non
essere l’eterno ritorno dell’uguale. Dobbiamo dimostrare di non essere
irriformabili. E a differenza di Enrico penso che dobbiamo discutere
anche delle nostre regole, perché non puoi dire “facciamo un partito
nuovo” con lo stesso meccanismo malato che consuma i leader e ci riporta
sempre al punto di partenza. Un po’ più soli».
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