Generali, Mediobanca, Anima (e Mps): la nuova mappa del risparmio tra fusioni e matrimoni
Attraverso i fondi, Amundi è arrivata anche ad avere più del 5 per cento di Anima. In una intervista al Messaggero, l’amministratore di Crédit Agricole Italia, Giampiero Maioli, ha escluso qualsiasi volontà di scalata alla Bpm. E ha respinto l’insinuazione di Guido Crosetto (Fratelli d’Italia) preoccupato da una ulteriore crescita francese nelle banche e, soprattutto, nel risparmio gestito, per il quale l’uso del golden power non è previsto. Circolano tante ipotesi di future aggregazioni, transnazionali e non. Anima e Arca potrebbero trovare una strada di convergenza comune. Il modello di quest’ultima (controllata da Bper e altre popolari azioniste, in particolare la Sondrio) non è dissimile da quello del mondo del credito cooperativo con Iccrea e la trentina Cassa Centrale Banche. Negli ultimi vent’anni, nella patria delle formiche del risparmio, gli operatori nazionali hanno preferito – qualche volta essendone costretti – concentrarsi sulla distribuzione rinunciando via via alla sfida della fabbrica, considerata persino una commodity.
Il nodo dei costi
Forse perché la prima vale due terzi delle commissioni e la seconda solo un terzo. Non sono mancate però le eccezioni. La principale è quella di Eurizon di Intesa Sanpaolo che però è molto concentrata in Italia. La fabbrica è rimasta, dunque, prerogativa dei grandi player internazionali: Blackrock, Fidelity, Vanguard. Qui la dimensione, la capacità di ricerca, l’attrazione di talenti fanno la differenza. Una leva operativa formidabile. E non basta vestirsi da fabbricanti, con sede per ragioni fiscali in Lussemburgo o Irlanda, per imitarne le potenzialità. In realtà molte fabbriche italiane, con la tecnica del white labeling, impacchettano prodotti di altri. Chi è più grande affronta meglio la sfida dei prezzi e può offrire condizioni migliori.
Le gestioni attive soffrono. La clientela dei fondi obbligazionari — che sono sotto mediamente del 15/16 per cento — paga commissioni medie del 2 per cento. Proprio ora che ritorna la convenienza, visti i rendimenti crescenti, sui titoli governativi. Gli italiani non hanno mai posseduto una quota così piccola (circa il 4 per cento) di bond. Cinque volte meno del periodo precedente l’ultima crisi finanziaria. La concorrenza delle gestioni passive (basata sull’impiego degli Etf , da vent’anni sul mercato italiano), che applicano commissioni decisamente più basse. si fa sentire. Nelle reti distributive spesso si richiedono ancora, nonostante tutto, delle commissioni d’ingresso. Al di là di un riassetto, in chiave di una difesa del risparmio gestito italiano, forse uno sguardo ai costi della clientela non sarebbe inopportuno nel Paese in cui si continua a risparmiare tanto salvo poi distrarsi sulla bontà degli investimenti.
Le formiche, nel loro piccolo, non sempre sono così pazienti
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