E’ finito il tempo della spesa facile

Veronica De Romanis

Con il 2022 si è chiuso un lungo periodo di politica fiscale espansiva. Ossia di spesa facile. Necessaria per sostenere le famiglie e le imprese durante la pandemia prima e la crisi energetica poi. Dal mese di marzo 2020, l’indebitamento è aumentato di 180 miliardi, di cui oltre 140 durante il governo Conte 2. A ciò vanno aggiunti circa 60 miliardi stanziati dal premier Draghi per far fronte all’inflazione. Queste risorse non sono state usate sempre nel migliore dei modi. In diversi casi l’impatto è stato addirittura regressivo. Come certificato dall’Ufficio parlamentare di Bilancio, nel primo periodo della crisi Covid-19, oltre il cinquanta per cento degli aiuti è stato distribuito alla parte più abbiente della popolazione. Del resto, non c’è da stupirsi. I soldi sono stati elargiti a tutti. Vi ricordate i bonus bicicletta, monopattino, ecc.? Ma non solo. È stata persino introdotta una nuova fattispecie, il 110 per cento, in cui il cittadino riceve dallo Stato più di quando abbia speso: simili agevolazioni non esistono in nessun Paese al mondo. Situazioni tanto surreali sono il risultato di un racconto della realtà completamente distorto. La responsabilità – ovviamente – non è ascrivibile solo a chi ha governato. Anche le parti sociali hanno giocato un ruolo. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, reclamava a gran voce tamponi “gratis” visto che i vaccini – a suo avviso – lo erano. Se la richiesta di Landini fosse stata accolta, il governo dell’epoca avrebbe introdotto l’ennesima misura a rischio di regressività. Landini dovrebbe sapere, infatti, che beni “gratis” non esistono. Ci sono solo beni finanziati dalla collettività. Ossia dalle tasse dei lavoratori, coloro che la Cgil sostiene tutelare. E così, nel biennio 2020-2022, il legame tra tasse, spese e debito è diventato – se possibile – ancora più impercettibile.

Il contesto, non va dimenticato, era certamente favorevole. La Banca centrale europea aveva lanciato il più ampio programma di acquisiti di debito degli Stati dell’euro: il cosiddetto Pandemic emergency purchase programme (Pepp). L’Italia è stata l’economia che ne ha beneficiato maggiormente: oltre 250 miliardi di titoli sono stati venduti all’istituto di Francoforte. Con l’arrivo del governo Draghi ci si aspettava un’inversione di rotta. Almeno nel racconto. E, invece si è continuato sulla stessa linea. Ai cittadini è stato spiegato che “era il momento di dare e non di togliere”. E, poi, che si poteva contare sul “debito buono”, cioè quella parte di indebitamento volta a finanziare spese che hanno un forte impatto sulla crescita. Simili affermazioni non potevano che diventare un boomerang. Soprattutto, quando al governo vi è una maggioranza di unità nazionale. Come prevedibile, il sostegno è stato dato – in molti casi – a tutti. Incluso chi non ne aveva necessità. Anche perché, molto del nuovo debito è diventato “buono”. Basti pensare allo sconto sulle accise. Una misura iniqua perché avvantaggia soprattutto i ricchi, che non usano i trasporti pubblici. Ma anche inefficace visto che elimina il segnale dei prezzi e, di conseguenza, non limita la domanda in una fase in cui l’obiettivo dovrebbe essere proprio quello di consumare meno, non di consumare uguale a spese della collettività. La presidente Meloni ha, quindi, fatto molto bene a non rinnovare il provvedimento.

E qui veniamo all’anno che è appena iniziato. L’esecutivo ha davanti a sé un’intera legislatura per cambiare il Paese. Non sarà un obiettivo facile da raggiungere in un contesto caratterizzato da forte incertezza, legata – principalmente – all’evolversi della guerra in Ucraina. A ciò va considerato che la politica monetaria della Bce sta diventando sempre meno accomodante.

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