La destra post-populista alla ricerca di un’ideologia

Cosa lascia è presto detto. Molti veleni, tra le tre destre al governo. Ma in fondo nessuno letale per la sua sopravvivenza. Certo non è un bel vedere, soprattutto per chi l’ha votata, una coalizione che si spacca dopo appena ottantatré giorni di convivenza. Da una parte il fratello d’Italia Lollobrigida che tuona “siamo infuriati” contro gli alleati. Dall’altra i leghisti che strillano e i forzisti che imprecano, perché quella maledetta accisa la abolirebbero subito, alla faccia del “abbiamo preferito mantenerla per finanziare le misure contro i più bisognosi”, che per loro sono come i posteri per Groucho Marx: perché dobbiamo fare qualcosa per i più bisognosi? Cos’hanno fatto questi bisognosi per noi? E anche se adesso sono tutti pompieri, lo scontro sulla benzina ha riacceso braci che covano e coveranno sempre. Finché avrà sangue nelle vene, Berlusconi non smetterà di considerare Meloni un’usurpatrice e Salvini un impresentabile. E finché avrà fiato in gola, Salvini continuerà a considerare Meloni un’abusiva e Berlusconi una cariatide. Ma dove volete che vadano, adesso, il Cavaliere senza più cavalleria e il Capitano senza più soldati, tutti e due con gli stessi voti di Calenda e Renzi? Il governo fibrillerà ma non cadrà, né sulla benzina né su altro. Anzi, alle regionali in Lombardia e nel Lazio si rafforzerà, grazie anche alla complicità e alla comicità involontaria di un’opposizione sempre più imbarazzante, divisa tra il castello di Kafka e il cinepanettone di Vanzina, il congresso esoterico del Pd e le vacanze di Natale di Giuseppi. Avanti così, verso un’imperitura irrilevanza.

Cosa insegna, è questione più complessa. Ha a che fare con la natura e la cultura di questa nuova destra. Riprendo la riflessione di Giovanni Orsina, che si è chiesto quale debba essere il profilo politico di questa nuova destra che si pretende “conservatrice”, nell’era del post-populismo. Una risposta chiara non c’è. Ma a quasi tre mesi dalla sua nascita, a me sembra che la Presidente abbia già in parte superato la fase più acuta della malattia populista. Sul piano politico non c’è alcuna traccia di un superamento virtuoso della contesa tra popolo ed élite, cioè la diade “vistocongliocchi-sentitodire” che Orsina pone all’origine dell’ondata populista di questi anni. Sul piano culturale non si vede un giudizio compiuto sul passato fascista e missino, né alcuna alternativa alla scorciatoia ideologica della triade Dio-Patria-Famiglia, nonostante evochi ormai principi astratti e residuati del Novecento, “triturati per decenni dalla tarda modernità”.

Qui le incoerenze sono ancora tutte in campo. C’è la devotissima visita presidenziale a Papa Francesco, ma da “famiglia di fatto”: la premier con il suo compagno mai sposato e la piccola Ginevra, con le foto di rito e la consegna dei volumetti “Il Cantico delle Creature” e “I fioretti di San Francesco” (ed è già un passo avanti rispetto agli “atei devoti” e ai “divorziati impenitenti”, da Berlusconi a Salvini e a La Russa). C’è la rituale costruzione del “nemico esterno” che distoglie l’attenzione dal conflitto interno: così si spiegano gli anatemi contro l’Europa per la ratifica del Mes (“Non lo useremo mai, ve lo posso firmare col sangue”) o per la direttiva sulle ristrutturazioni ecologiche del patrimonio immobiliare (“Giù le mani dalla casa degli italiani!”). Ci sono le intemperanze verbali e ordinamentali di qualche ministro o di qualche consigliere locale: da Guido Crosetto che inveisce contro la Bce, scimmiottando talvolta il Fred dei Flintstones (“Giorgia, dammi la clava!”) ai consiglieri del Comune di Roma che chiedono al sindaco di impedire l’iscrizione alla scuola dell’infanzia dei figli di migranti privi di documenti regolari (“Svantaggiano le famiglie italiane che rispettano le leggi!”).

Ma a parte queste “coazioni a ripetere” e dure a morire, l’esordio di Meloni, più che una pretesa, riflette già una rinuncia. Con i suoi primi atti, la Sorella d’Italia ha saldato qualche piccolo debito con i suoi blocchi sociali di riferimento. Ma proprio la vicenda delle accise dimostra che, se una “pacchia” è davvero finita, è per noi molto più che per l’apposita “Europa Matrigna”. Dalla legge di bilancio al decreto sulla benzina, la premier non ha cavalcato “l’insurrezione populista” che l’ha aiutata a conquistare Palazzo Chigi, ma ha introiettato il principio di realtà. Non vuole vellicare il rancore del “forgotten man” contro “l’individuo anywhere”, ma in politica estera e in politica economica deve accettare il “vincolo esterno” di EurAmerica. Al di là dei proclami garibaldini rideclinati col tono del Ventennio, l’ha detto lei stessa alla convention milanese di ieri: “Faremo le scelte che vanno fatte, con coraggio e determinazione, anche se risulteranno impopolari”.

Dunque, per tornare a Orsina, Meloni non può o non sa proporre una nuova “antropologia alternativa” a quella del neo-liberismo e del globalismo, dalla quale prometteva di affrancarsi. Resta nel solco di chi l’ha preceduta, Draghi compreso. Vedremo se sarà capace di farlo in futuro. Nel frattempo, per chi a destra l’ha votata sognando la “rivoluzione sovranista” dev’essere un brusco risveglio. Per l’Italia, invece, è una buona notizia.

LA STAMPA

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