La necessità del dubbio e la sindrome del puparo

Questo stato di cose è al tempo stesso effetto e causa della mancata identificazione di ampie sezioni della società italiana nello Stato democratico. Un po’ perché alcune componenti se ne sono sempre sentite estranee, e dunque ne hanno contestato fin dall’inizio la legittimazione. Un po’ perché la grande frattura della fine della Prima Repubblica è avvenuta nelle aule giudiziarie, contribuendo così a fare dell’inquisizione l’atto fondativo della Seconda e il motore della storia successiva. Un po’ perché un po’ alla volta la denigrazione ha preso il posto della politica nella lotta per il consenso, generando addirittura grandi e nuovi partiti di massa. Fatto sta che quel solco non si colma nemmeno nei momenti di gioia che dovrebbero essere comuni, nel momento del successo dello Stato.

Ha preso insomma piede una cultura politica che prima di chiedersi «che cosa giova» al Paese, si chiede «a chi giova». E che deforma la storia della Repubblica italiana come un mero gioco di specchi, un coacervo di intrighi shakespeariani, una vicenda di apparati e poteri, nella quale spariscono non solo le masse e il loro ruolo, ma anche i risultati conseguiti da quello stesso Stato che viene presentato come infido e nemico.


La Repubblica italiana, in 77 anni di vita, ha sofferto molti misteri, ha visto molte deviazioni e subito molti attentati. È stata più volte sull’orlo della catastrofe. Ma alla lunga ha sconfitto nemici mortali come la «strategia della tensione», fermando i manovali neri delle bombe e impedendo una svolta autoritaria. Ha prevalso su quello che è stato un vero e proprio tentativo di insurrezione armata, condotto nel sangue dalle Brigate Rosse. E ha chiuso i conti almeno con quella Cupola mafiosa che credeva possibile piegarla con le stragi, impedendo che diventasse vano il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e di tanti magistrati, poliziotti, carabinieri, uomini politici, che non facevano trame, non ordivano complotti, ma anzi hanno reso fino in fondo il loro servizio alla Repubblica.

Altre mafie e altri mafiosi da combattere arriveranno, lo sappiamo che non è finita qui. Ma, forse, pur con tutte le sue magagne e debolezze, lo Stato democratico merita almeno una presunzione di innocenza, quando arresta il Re di Cosa Nostra.

CORRIERE.IT

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