Perché l’arresto di Messina Denaro frenerà la «rivoluzione» di Nordio sulle intercettazioni
di Gianluca Mercuri
Una frenata in realtà è in atto da tempo, perché alla fine è Meloni che comanda. E la cultura della premier, se non si può definire giustizialista è di certo ultra-legalitaria e cozza con il rischio che un allentamento dei bulloni la faccia fare franca a qualcuno
Concetto numero 1: «Non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo».
Concetto numero 2: «Le intercettazioni servono soprattutto per individuare i movimenti delle persone sospettate di mafia, terrorismo. Anche quelle preventive sono indispensabili. Altra cosa sono quelle giudiziarie che coinvolgono persone che non sono né imputate né indagate e che attraverso un meccanismo perverso e pilotato finiscono sui giornali e offendono cittadini che non sono minimamente coinvolti nelle indagini».
Concetto numero 3: «Andremo avanti sino in fondo, non vacilleremo e non esiteremo. La rivoluzione copernicana sull’abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma».
In teoria, il 18 gennaio al Senato Carlo Nordio, ha tenuto il punto nella sua battaglia ultra-garantista per una delle riforme per cui si batte da anni e sulle quali ora, da ministro della Giustizia, afferma di non volere recedere (ci sono anche cosucce come la separazione delle carriere dei magistrati e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale).
In realtà, però, la sensazione sempre più diffusa è che l’arresto di Matteo Messina Denaro, per l’impatto politico e mediatico che ha avuto, abbia impresso una frenata pressoché definitiva agli intenti rivoluzionari di Nordio in tema di intercettazioni. Una frenata in realtà in atto da tempo, perché alla fine è Giorgia Meloni che comanda e la cultura della presidente del Consiglio, se non si può definire giustizialista, è di certo ultra-legalitaria e cozza d’istinto con il rischio che un allentamento dei bulloni della giustizia la faccia fare franca a qualcuno. Soprattutto se i reati di quel «qualcuno» — i colletti bianchi, i politici, gli amministratori — in molti casi non sono così distinguibili da quelli di mafia. Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, non a caso, ha parlato al Corriere di «borghesia mafiosa» per descrivere «quel mondo amorale al quale appartengono alcuni esponenti delle professioni, della politica e dell’imprenditoria allenati da generazioni a risolvere i problemi attraverso la mediazione di una mafia sempre disponibile».
Certo, resta un po’ un mistero perché Meloni abbia scelto Nordio, se la distanza culturale tra i due è così evidente (la Rassegna se n’era già occupata a fine ottobre), ma è un mistero fino a un certo punto. Alla premier Nordio piace per la sua brillantezza e la sua totale autonomia di giudizio, nonché per la capacità di tenere testa in qualsiasi dibattito a qualsiasi «toga rossa» e di opporsi al pensiero mainstream che tanto la irrita. Se lo propose come candidato del centrodestra alla presidenza della Repubblica, giusto un anno fa, è perché scelte come questa rientrano pienamente nel disegno egemonico meloniano sulla coalizione, il progetto di un grande Partito conservatore che annetta più o meno tutto, lasciando al suo fianco giusto una costola leghista a mo’ di Csu bavarese. E un progetto del genere non può non includere culture più garantiste della sua.
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