Gianni Cuperlo: «Dietro Bonaccini e Schlein i soliti nomi. La prima volta che ho visto D’Alema mi chiese quanti libri leggessi»
Perché scelse D’Alema e non Veltroni?
«Ho sempre apprezzato il modo in cui Veltroni modernizzò la
nostra comunicazione, e i vari modi in cui ora continua a fare politica.
Ma mi pareva che attorno a D’Alema potesse nascere un partito più
solido».
Qualcuno ha accostato
la parabola di D’Alema a quella di Rimbaud nella canzone di Vecchioni:
«E volersi fare male al punto di finire lui mercante d’armi…».
«Si fermi che ci querela».
Scherzi a parte: a
Palazzo Chigi lei era uno dei Lothar, come li definì Maria Laura Rodotà.
L’unico con i capelli. Gli altri erano Minniti, Velardi, Rondolino, La
Torre.
«Non ero un Lothar e non solo per i capelli; tanto che all’inizio
del governo D’Alema rimasi al partito, lavorai a Chigi solo gli ultimi
sei mesi. L’errore loro fu di sostituire il partito con il leader
carismatico; non a caso tutti i miei amici che lei ha citato sono
rimasti affascinati da Renzi. Finì male allora, con l’11-4 alle
Regionali del 2000; ed è finito male pure Renzi».
LE PRIMARIE DEL PD
Con Renzi lei fu presidente del Pd.
«Per 32 giorni. Presi la parola in direzione per contestare
l’accordo con Berlusconi sulla legge elettorale, il famigerato Italicum.
Renzi mi liquidò in modo sprezzante: parla questo che in Parlamento è
stato nominato. Mi dimisi. Mia figlia mi mandò un WhatsApp: “In 32
giorni nessuno avrebbe potuto fare meglio”. Aveva ragione lei a
prendermi in giro, e torto io».
Perché?
«Non bisogna essere permalosi, tanto più che ho continuato la
battaglia da dentro il gruppo dirigente. Comunque dal partito non me ne
sono mai andato».
D’Alema, Bersani, Speranza sì.
«E ora rientrano. Ero convinto che stessero sbagliando. Pensavano
che il Pd con Renzi avesse perso l’anima in modo irreversibile. Non era
vero».
Ora lei in Parlamento c’è tornato.
«Dopo quattro anni di cassa integrazione, all’inizio a zero ore».
Com’è andata?
«Scaduto nel 2018 il mandato, il tesoriere…».
Bonifazi.
«Il tesoriere mi disse, senza malizia, che per il mio bene non
avrei percepito lo stipendio da funzionario del partito, pur continuando
a lavorare. Cosa che ho fatto volentieri, consapevole che c’erano tanti
cassintegrati messi peggio di me».
Cosa pensa della Meloni?
«Una leader più attrezzata di Salvini. Ma la sua non è la destra
delle liberalizzazioni, o quella berlusconiana del conflitto di
interesse, o quella leghista delle felpe. È una destra dura,
strutturata. Non è folklore; è un impianto, un’ideologia. Per batterla
culturalmente dovremo mobilitare tutte le nostre risorse e farlo nella
società».
Sul serio crede a un rischio autoritario?
«Credo al rischio indicato da Dossetti: ogni governo autoritario
comincia con un’iniezione di paura a cui si offre un antidoto, ma in
cambio di una quota di libertà».
Ad esempio?
«Ad esempio questo governo tratta la povertà come una colpa da
espiare, come ai tempi di Dickens, quando i poveri per legge dovevano
accettare un lavoro a qualsiasi salario, pena finire reclusi in
ospizio».
Conte è più attrezzato di voi a fare opposizione?
«Più che la Meloni, Conte sembra voler distruggere il Pd. Proprio
come Renzi. Sono in questo congresso anche per aiutare a impedirlo».
E Calenda?
«Mi è simpatico. Ma nel Cuore girato da suo nonno, più della parte di Enrico Bottini, gli sarebbe piaciuta quella di Franti».
Perché ora lei si candida a leader? Non è che l’idealista Cuperlo in fondo è un ambizioso?
«Se lo fossi, avrei accettato il posto da ministro che mi è stato offerto, e per due volte».
In quali governi?
«La prima volta nel governo Gentiloni; ma avevo votato sì al
referendum, e non volevo essere accusato di alto tradimento. La seconda
nel Conte bis; ma non mi convinceva l’operazione, fatta senza neppure
consultare i nostri iscritti».
Perché ora la sua corsa impossibile alla segreteria del Pd?
«Umberto Saba scrisse una lettera a Scipio Slataper per
chiedergli cosa restava da fare ai poeti; la sua risposta fu: una poesia
onesta. Vale lo stesso per noi. Ci resta da fare una politica onesta.
Che non significa solo non rubare, ma mostrare che si è disposti a
rischiare».
Perché non va bene Bonaccini?
«È un amico e lo stimo, ma dietro a lui come dietro a Elly vedo ripararsi tutto il solito e inamovibile establishment,
quello che ha passato ogni temporale senza mai bagnarsi. E poi non
credo al partito dei soli amministratori. Il doppio incarico, come ha
dimostrato il caso Zingaretti, non funziona. Dobbiamo coinvolgere
soprattutto gli amministrati. Il Pd va rifondato e aperto ai movimenti,
alla società».
E l’altro?
«Quelli convinti che solo la partecipazione popolare possa
cambiarci. È il filone in cui mi riconosco. Quello di Gobetti, Gramsci,
Sturzo».
Berlinguer l’ha mai conosciuto?
«L’ho visto quando venne a Trieste, per i funerali di Vittorio
Vidali, il comandante Carlos. Lo ricordo al bar della federazione
prendere un caffè con Rafael Alberti, il poeta, che aveva conosciuto
Vidali nella guerra di Spagna».
A Trieste lei torna ogni tanto?
«A trovare mia madre. Dopo la morte di mio padre volle andare a
vivere in una Rsa, nel 2019. Il Covid fu un’esperienza terribile. A
lungo non ho potuto vederla. Poi mi bardavano come un palombaro, me la
trovavo davanti sulla sedia a rotelle, dietro un divisorio di plastica,
su cui mettevamo il palmo della mano per salutarci, come i carcerati…
Tutto il sistema delle Rsa andrebbe ripensato. Tutta la sanità pubblica è
da salvare. Non le pare un’altra buona ragione per candidarsi?».
CORRIERE.IT
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