La presidente, gli squadristi e il nemico immaginario
Se fossi un elettore di destra, non sarei troppo contento del mio governo. La mia leader in campagna elettorale mi aveva illuso con quel promettente avviso ai naviganti: «Se vinciamo noi, è finita la pacchia». Dopo cento giorni di governo, la mia presidente del Consiglio mi ha spiegato che però «bisogna fare i conti con la realtà». E poi mi ha richiamato all’armi, in orbace nero-fascio ritinto in rosso-garibaldi: «Qui si fa l’Italia o si muore». E a me è rimasto questo filo di inquietudine, quest’ansia da prestazione insufficiente. Che io sia stato suo camerata dagli esordi nel Fronte della Gioventù, suo giovane follower all’epoca dei raduni di Atreju o suo sostenitore moderato in questo tempo di passioni tristi. Per adesso, trascorsi più di tre mesi a confutare e congetturare nell’agognata stanza dei bottoni, mi pare che si stia già un po’ morendo, mentre di fare l’Italia non se ne parla proprio.
Certo, c’è la floscia bandierina identitaria dell’Autonomia differenziata, ci sono i 15 decreti-lampo varati dal 22 ottobre, c’è la retorica tronfia delle “100 azioni in 100 giorni”, la postura muscolare da wrestler staraciano, “contro la Mafia”, “contro l’illegalità”, “contro le Ong”, e poi la vacua “volontà di potenza” spacciata per traguardo raggiunto, tra un «abbiamo ridato dignità all’Italia nel mondo» e un «abbiamo salvato l’ergastolo ostativo». Paccottiglia per la bassa propaganda, innocenti evasioni psicotrope da “Fascisti su Marte”, facilmente smascherate su queste colonne da Lucia Annunziata, che ci ricorda le uniche “cose nuove” fatte davvero fino ad ora (a parte gli sgravi anti-crisi energetica ripresi dalle manovre draghiane): la stretta al reddito di cittadinanza, i dodici condoni fiscali, la tassa piatta estesa per le partite Iva, l’innalzamento del tetto al contante.
Per il resto, svariate e sguaiate retromarce su Roma. E una stupefacente sequela di intemerate e intemperanze. Dunque, al fondo, una sensazione disturbante di casino che si insinua nella destra in sé e nella destra in me, ipotetico fan della Sorella d’Italia, sedotto dalle stentoree virtù decisioniste della “Ducia liberale” (come la definisce Giuliano Ferrara) o del “capriccio della Storia” (come si definisce lei stessa): ah Giò, che volemo fa’?
La bufera sulla premiata ditta Donzelli&Delmastro è solo l’ultima della serie, che era cominciata subito con il pasticcio del decreto-rave ed era proseguita con l’intoppo del decreto sicurezza, il disastro delle accise sui carburanti e il caos sulle intercettazioni. Ma mentre quelle di prima facevano sorridere, questa fa rabbrividire. Qui non c’è solo una sgrammaticatura lessicale, come ne abbiamo già sentite tante: le smargiassate di Urso con i benzinai, le sparate di Crosetto contro la Bce, le scivolate di Valditara sull’umiliazione degli studenti, le boiate di Sangiuliano su Dante, fino ad arrivare alle pasquinate repubblichine di La Russa, capace di condannare le leggi razziali mentre nel salone di casa venera il busto di Benito che le impose. Qui, viceversa, c’è una vera e propria rottura istituzionale. Il modo in cui la fratellanza italica ha gestito il caso Cospito è un concentrato dei peggiori vizi di certa destra nazionale: analfabetismo giuridico e squadrismo costituzionale, furia ideologica e spregiudicatezza politica.
A prescindere da come la si pensi su Cospito, sui suoi delitti e sulle sue pene (e io ne penso male), qui il problema è un altro: la vicenda di un detenuto che può morire per sciopero della fame è stata cavalcata per fare due “operazioni” di rozzo marketing politico. La prima operazione è vergognosa: appioppare all’apposito Pd lo stigma del fiancheggiamento all’anarchismo, al terrorismo e alla criminalità organizzata. Ora, la lista delle colpe politiche di quel partito esanime è infinita e forse non starebbe in un elenco telefonico. Ma questa proprio non si può sentire. Sul finire dei terribili ’70 Rossana Rossanda ebbe il coraggio di ammettere che le Br facevano parte dell’album di famiglia della sinistra. Ma oggi metterlo sul banco degli imputati per collusione con terroristi e mafiosi è un’accusa infame e miserabile. Tanto più se è rivolta a un fronte politico che in quella “guerra civile” sacrificò Aldo Moro e Pio La Torre, e ancora di più se a rispolverare la requisitoria dell’odio sono i nipotini del fronte opposto, che offrì manovalanza alle stragi di Stato, dall’Italicus alla Stazione di Bologna. La seconda operazione è pericolosa: alimentare nel Paese un clima di allarme, di tensione e di eversione, di cui onestamente c’è poca traccia e non si sente il bisogno. A meno che, come scrive Massimo Cacciari, non si voglia prendere per vera la furbizia paranoide di chi camuffa da nuovi e sanguinosi “anni di piombo” i pur gravi atti di violenza perpetrati dalla galassia anarchica (le scritte sui muri, i manifesti contro Mattarella, le aggressioni alle ambasciate, le molotov contro le auto della Polizia).
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