La presidente, gli squadristi e il nemico immaginario
Invece sta succedendo esattamente questo. La destra-destra manganella il Pd che affoga e istiga le piazze che ribollono. Quasi che avesse bisogno dei disordini per nutrire nel Paese la fame di Donna Forte. La quale, intanto, prima tace e lascia fare. Poi replica, ma non arretrando di un solo millimetro dalla “linea gotica” tracciata dai suoi rabbiosi luogotenenti. O addirittura irrorando con altre gocce di benzina i focolai di rivolta che covano. In Germania, Meloni rifiuta la domanda del nostro Ilario Lombardo, che le chiede lumi sul caso Donzelli&Delmastro. Il giorno dopo, con una lettera al Corriere della Sera, contesta il diritto dei giornalisti di fare domande, e per il resto benedice tutto. Giustifica l’operato dei suoi baldi giovani che, pur brandendo le parole come i manganelli di Balbo e Arpinati, non hanno violato alcun “segreto” e dunque per loro non esistono “in alcun modo i presupposti delle dimissioni”. Mente sulle notizie riferite da Donzelli “già anticipate dai media”, perché il suo parlamentare in Aula ha fornito date, nomi dei boss e colloqui tra virgolette, mentre su Repubblica Lirio Abate aveva scritto solo di un Cospito che genericamente «parla con tre mafiosi nell’ora d’aria». Conferma punto per punto l’attacco all’opposizione, alla “singolare indignazione” del Pd, alla “visita a Cospito” dei suoi “autorevolissimi dirigenti”, alla “richiesta di revoca del 41 bis”. Insomma, dà piena copertura politica sia al vulcanico Donzelli che alla Camera squaderna informazioni “non divulgabili” secondo il Dap, sia al solito Delmastro che crocifigge gli “inchini a Cosa Nostra” di Orlando e Serracchiani, sia al sottosegretario Fazzolari che li incalza sul loro “silenzio così assordante”.
Il paradosso è che dopo aver ridato fuoco alle polveri la premier invoca l’intervento dei pompieri. «Perché i toni si sono alzati troppo», perché «dobbiamo stare tutti uniti», perché «l’Italia è sotto attacco». Anche qui, sia chiaro: la rete anarco-insurrezionalista va attenzionata con serietà e se occorre va colpita senza pietà. Ma per ora non risultano sacchi di sabbia alle finestre e cavalli di frisia agli angoli delle strade. E se la “minaccia” è lo sparuto drappello di manifestanti che abbiamo visto ieri, la notizia dell’imminente “morte della democrazia” appare largamente esagerata.
E allora, perché questa bagarre che alterna vecchi cascami da Strapaese a nuovi proclami da junta sudamericana? Un’ipotesi è che la premier non solo sia al corrente, ma sia anche alla regia di questo storytelling da regime assediato. Perché è la sua natura post-missina, perché la famosa “pancia del Paese” in fondo brontola sempre da quella parte, perché ci si abitua a costruire un nemico sia quando si vola nello stormo dei “gabbiani” di Colle Oppio sia quando si atterra a Palazzo Chigi col picchetto d’onore, perché ci sono le elezioni regionali in Lazio e in Lombardia. Un’altra ipotesi è che invece le situazioni le sfuggano di mano. Che lei non riesca a tenere sotto controllo un partito sgangherato e impreparato. Che tra i suoi “patrioti” la somma dell’incompetenza e dell’arroganza, coniugata al dilettantismo e al vittimismo, riveli una fragilità strutturale e produca un’indecisione sistemica, alle quali si supplisce solo con gli appelli securitari, le chincaglierie legge-e-ordine, i richiami della foresta, le fughe in avanti, i salti nel cerchio di fuoco.
Il caso Nordio è il paradigma. Da tre settimane sdottoreggia su una riforma della giustizia che ancora non esiste e forse non esisterà mai. Vaneggia su modifiche dell’ordinamento (dalla separazione delle carriere al bavaglio all’informazione) di cui non risultano decreti o disegni di legge scritti. Da ultimo, per salvare i soldati Donzelli&Delmastro, il Guardasigilli sforna un parere che è un capolavoro di ambiguità, sufficiente alla premier per assolverli: i due compari hanno propalato documenti “sensibili” ma a “divulgazione limitata”, qualunque cosa significhi. Possiamo accontentarci di questo? La palla in tribuna, ancora una volta, mentre sul campo impazza la pugna degli arditi? Torno alla questione iniziale. Se fossi un elettore della destra, di una destra repubblicana e costituzionale, io sarei insoddisfatto e insofferente. Vorrei che “La Presidente” non si ritrovasse come quella raccontata per Sellerio da Alicia Giménez Bartlett nel suo ultimo romanzo, cioè “una balena arenata, né più né meno, immensa e distesa sulla sabbia…”. Vorrei che prendesse finalmente il mare. Che facesse qualcosa. Magari proprio “qualcosa di destra”, cioè che usasse la sua leadership per decidere, rimettendo in riga i casinisti al governo e i tafferuglisti nel partito. Che prendesse in mano il destino suo e quello dell’Italia, come ha giurato il 25 settembre, guarendo finalmente dai suoi mali: dalla livida “sindrome dell’underdog” alla cupa “vocazione minoritaria”. Ma dopo questi tumultuosi 100 giorni, avrei il sospetto di essere a mia volta in netta minoranza, perché il grosso dei suoi elettori questa destra-destra continua a preferirla così: rissosa e provocatoria, irriducibile e irresponsabile. Prigioniera di se stessa, dei suoi miti, dei suoi fantasmi. Compresa la Buonanima, che diceva “meglio uno squadrista che venti filosofi”.
LA STAMPA
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