“L’illusione della fine della Storia…”. L’affondo di Caracciolo
Venerdì 10, alle Stelline di Milano, “Chi decide le sorti del nostro futuro” con Tremonti, Foa e Caracciolo. Affrontiamo con il direttore di Limes il tema del ritorno della Storia e la difficoltà della classe dirigente italiana a comprenderlo
A partire dal suo ultimo libro, La pace è finita, oggi IlGiornale.it dialoga con Lucio Caracciolo. Insieme a Giulio Tremonti e all’ex presidente della Rai Marcello Foa il direttore di Limes, principale rivista italiana di geopolitica, parteciperà all’incontro Chi decide le sorti del nostro futuro (le iscrizioni sono chiuse per raggiunti limiti di posti, ma si potrà seguire online) che si terrà venerdì prossimo (alle 18) al Palazzo delle Stelline a Milano. Sarà l’occasione per fare il punto sulla globalizzazione e sul ruolo della storia nel plasmare gli equilibri geopolitici del presente.
Direttore, il suo libro dimostra che Francis Fukuyama, teorico della “fine della Storia”, ha perso?
“Dire che Fukuyama ha perso forse è una presa di posizione eccessivamente dura. Sicuramente il libro di Fukuyama resta importante e da leggere con attenzione anche alla luce del fatto che l’autore ha più volte poi riorganizzato le sue tesi”.
Tra le chiavi di lettura che dà nel libro a Fukuyama, si palesa quella del dualismo delle letture del concetto di End of the History. “La fine” o “il fine”? Si può cercare una teleologia nella storia odierna?
“Chiaramente non si parlare di un fine della Storia inteso come una razionalità comune verso cui le dinamiche umane tendono. O di un fine comune della Storia. Sicuramente assistiamo alla proliferazione di una serie di Storie e di narrazioni coltivate dalle potenze con fini pret-a-porter. Che in larga parte coincidono con gli interessi nazionali delle singole potenze”.
Quanto succede in Est Europa ce lo insegna?
“Si, in Europa orientale abbiamo una serie di potenze piccole e medie che vivono la loro piena fase risorgimentale e assistono a una piena rilettura della loro storia a fini politici interni. Certamente questo giustifica anche la narrazione che le vuole intente a una battaglia per la sovranità e volenterose di non cedere grandi quote di questa a Bruxelles e alle istituzioni comunitarie. Dall’esterno queste nazioni chiedono essenzialmente soldi per lo sviluppo all’Unione Europea e ai Paesi membri e soldati per la loro difesa agli Stati Uniti”.
A proposito di Usa, il tema della storia è spesso di attualità…
“Il caso Usa è un esempio di dibattito in cui assistiamo a una ricostruzione problematica della storia a partire dalla campagna 1619 Project lanciata dal New York Times. La principale testata di New York ha sostenuto una campagna per la rilettura della storia americana non a partire dalla guerra d’indipendenza e dalla rivoluzione americana che ha portato alle basi della Costituzione a fine XVIII secolo, ma con l’arrivo dei primi coloni inglesi nel 1619. In sostanza si vuole far passare l’idea che la storia degli Usa non parta con la loro nascita e con la Costituzione come atto fondativo ma bensì dalle azioni di un gruppo di schiavisti”.
E per quanto riguarda Cina e Russia?
“In Cina abbiamo una rilettura del passato da parte di Xi Jinping che si vede a capo di una “dinastia rossa” che vede i legami col mandato celeste del passato in continuità, con diverso nome e assetto istituzionale, con la tradizione imperiale che fonda le sue radici in cinquemila anni di storia. Per quanto riguarda la Russia, l’esempio della guerra in Ucraina è sotto gli occhi di tutti. La Russia ha provato a giustificarla all’interno sotto forma di una rilettura dell’obiettivo di ricomposizione dell’unità del mondo russo alla luce degli esempi del passato”.
La carica delle battaglie identitarie si sente fortemente. Come commenta, ad esempio, il caso dell’esclusione della Russia dalla festa per la liberazione di Auschwitz?
“Auschwitz è stata liberata dall’Armata Rossa, questo è certo e indiscutibile. Poi ovviamente è chiaro che nell’Armata Rossa ci fossero sia russi, soldati e ufficiali, in larga maggioranza, che ucraini. Ma anche molti esponenti dell’Impero profondo e delle regioni più remote dell’Unione Sovietica, come i siberiani”
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