Reddito, l’Isee punisce il Nord
Chiara Saraceno
La bozza di riforma del Reddito di cittadinanza che delinea la nuova misura (Mia – Misura di inclusione attiva) che lo sostituirà a fine anno, circolata ieri, presenta alcuni aspetti positivi ma anche diverse criticità. Sicuramente positivo è il fatto che sia stata abbandonata l’idea di lasciare senza sostegno economico coloro che sono ritenuti occupabili, contravvenendo le indicazioni della Raccomandazione europea sul reddito minimo che anche il governo italiano ha approvato a gennaio. Positiva è anche l’attenzione per le politiche attive del lavoro in cui coinvolgere coloro che sono definiti “occupabili”, intendendo non solo l’incrocio di domanda e offerta tramite una piattaforma digitale, ma concrete attività di formazione e consulenza. Non si tratta, per altro, di una novità, stante che ciò avrebbe dovuto avvenire anche con il RdC e se non è avvenuto non è certo per responsabilità dei percettori di RdC, ma di chi avrebbe dovuto offrire e monitorare queste attività, ovvero Centri per l’impego e Anpal. Occorrerà vedere se questa è la volta buona. I segnali non sono del tutto positivi, stante che il governo finora nulla ha fatto perché si potesse dar seguito agli obblighi per i beneficiari che ha introdotto nella legge di bilancio: corsi intensivi di formazione e aggiornamento a partire dal 1° gennaio e corsi per l’acquisizione del titolo dell’obbligo scolastico per i giovani che ne sono privi, all’interno di un accordo (a tutt’oggi non formalizzato) tra ministero del lavoro e ministero dell’istruzione. Le politiche attive del lavoro continuano ad essere il tallone d’Achille delle politiche del lavoro (e dell’assistenza) italiane. Aggiungo che il programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) riguarda solo una frazione dei percettori di RdC tenuti a firmare il patto per il lavoro.
Due grandi criticità che richiedono maggiore attenzione da governo e opposizione riguardano l’abbassamento del tetto Isee che darà accesso alla nuova misura e la divisione della platea dei potenziali beneficiari in due gruppi distinti per quanto riguarda sia gli importi massimi, sia la durata. L’abbassamento dell’Isee escluderà di fatto per lo più famiglie che abitano nelle grandi città, specie nel Centro-Nord, dove redditi e ricchezza medie sono più alti, ma così anche il costo della vita. Sono personalmente contraria a stabilire soglie territorialmente differenziate per l’accesso a politiche pubbliche nazionali, non solo perché è difficile individuare i confini territoriali adeguati, ma anche perché accanto a costi della vita differenziati c’è, purtroppo, molto spesso anche una disponibilità di beni pubblici (scuola, sanità, trasporti) simmetricamente altrettanto differenziati. Ma abbassare così drasticamente la soglia Isee avrà un impatto negativo soprattutto al Nord. Quanto alla divisione dei beneficiari in due platee, sulla base della presenza o meno di minorenni, persone con disabilità, anziani, per quanto riguarda non solo la durata massima (molto più breve per le famiglie senza quelle figure) ma anche l’importo massimo (rispettivamente 500 e 375 euro per una persona sola) non se ne capisce la logica. Se, infatti, si può comprendere, pur senza condividerla, la motivazione della riduzione della durata come forma di stimolo all’attivazione, salvo chiedersi con che cosa vivrà chi, pur avendo fatto tutto quanto richiesto, non trova una occupazione con remunerazione adeguata in tempo utile., la riduzione dell’importo sembra avere una logica puramente punitiva, stante i bisogni non cambiano a livello individuale a seconda che uno abbia o meno un disabile o un minorenne in famiglia. Questi conteranno per la propria quota (e non sembra che per ora si intenda modificare la scala di equivalenza che attualmente penalizza i minorenni e le famiglie con minorenni e numerose). Aggiungo che tra coloro che vivono in famiglie senza minorenni, o disabili, o anziani possono esserci persone che non sono di fatto occupabili in modo adeguato, ad esempio ultracinquantenni con scarsa qualifica molto lontani dal mercato del lavoro. Infine, nella bozza i minorenni che hanno 16 anni e non sono in formazione sono considerati adulti tenuti a partecipare alle politiche attive del lavoro. Siamo sicuri che non sarebbe opportuno rimetterli invece in formazione, o almeno dare loro l’opzione?
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