Siamo alla frutta: in 15 anni spariti 100 mila ettari coltivati
Valeria D’Autilia
Michele è un agricoltore di Lugo di Romagna, zona storicamente vocata alla coltivazione di pesche. Ha dovuto dimezzare il suo frutteto e orientarsi su produzioni industriali e alberi di noce. Mattia, in Piemonte, ha detto addio a 12 ettari di kiwi, estirpati nel giro di pochi anni. Adesso coltiva quasi soltanto mele, con i conseguenti rischi di una produzione sbilanciata. In Puglia, Dario ha scelto di destinare una parte dei terreni agli avocado, nuovo simbolo di una regione dal clima sempre più tropicale. Come loro, tanti altri imprenditori agricoli di un’Italia che sta cambiando volto: in 15 anni sono scomparsi oltre 100 mila ettari di superficie coltivata a frutta e 100 milioni di piante di frutta fresca. Un danno per il comparto, con effetti drammatici anche su consumi e paesaggio, con una crescente desertificazione dei territori.
Numeri ufficializzati da Coldiretti che parla di «strage» e ieri è scesa in piazza, a Cosenza, per protesta. La situazione peggiore si registra su arance, con 16,4 milioni di alberi abbattuti, pesche e pere dove il segno meno tocca rispettivamente 20 e 13,8 milioni e sull’uva dove sono scomparse 30,4 milioni di viti. In controtendenza, cedro e bergamotto. Le cause sono soprattutto nel cambiamento climatico e negli insetti alieni, spesso conseguenza del surriscaldamento. A questo si aggiungono prezzi bassi ai coltivatori, rincari energetici, concorrenza sleale.
«In Europa – commenta Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti – siamo i primi produttori per pere, ciliegie e uve da tavola e secondi per mele, ma le perdite sono davvero pesanti. Il consumo pro capite è al livello minimo consigliato dall’Oms. La contrazione è preoccupante: sembra che alla minore disponibilità di prodotto nazionale, sia seguito un minore consumo di frutta e ortaggi, anche a causa della crisi economica».
Michele Graziani, perito agrario 29enne, lavora nell’azienda di famiglia in provincia di Ravenna. Sino a un po’ di tempo fa, coltivava frutta da consumare, adesso da trasformare. E così le sue pesche si utilizzano per i succhi. «In questo modo, abbiamo contratti a prezzo stabilito per almeno un decennio. Il frutteto ha costi molto alti e, senza ritorno economico, non sta in piedi». Da queste parti, negli ultimi 20 anni, gli agricoltori hanno dovuto fare i conti con la concorrenza estera e l’arrivo della cimice asiatica che ha compromesso i raccolti. «Di pari passo, ci siamo orientati sul noce da frutto, cambiando specie. Questo prodotto per l’80% arriva da California, Cile e Australia e abbiamo deciso di sperimentarlo anche noi. Peraltro, essendo ad alto fusto, non ha problemi con gelate e brinate».
Anche Mattia Quaglia ha fatto una scelta in controtendenza rispetto alla storia di Verzuolo, nel Cuneese, tra le prime in Italia – già negli anni ’70 – a piantare kiwi. Dopo vari tentativi, ha detto basta. Come lui, tanti altri. «Per la zona è stato un cambio epocale: tra batteriosi e moria radicale, sono stati estirpati centinaia di ettari». Neppure il tentativo di coprire le piante con le reti ha funzionato. Le grandinate creano una miriade di ferite ed è lì che il batterio si insinua. Così, nella sua azienda, ora produce quasi soltanto melo.
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