Pd, nodo capigruppo: Bonaccini lancia l’ultimatum a Schlein

Carlo Bertini

ROMA. «Cari amici e compagni, se la proposta sui nuovi capigruppo sarà un prendere o lasciare, credo non ci siano le condizioni per un nostro ingresso nella segreteria del partito». È in questi termini che oggi Stefano Bonaccini, nel summit via zoom dei parlamentari che lo sostengono, parlerà ai suoi «perché nuora intenda», come si usa dire. Ovvero, a meno che Elly Schlein non gli telefoni prima per cercare un’intesa, il governatore le lancerà una sorta di ultimatum: o si segue un metodo condiviso nelle scelte cruciali, attribuendo a chi ha vinto il congresso tra gli iscritti del Pd uno dei due capigruppo, oppure si rompe il meccanismo, ricercato dopo le primarie dalla neo leader, di una gestione comune del Pd per evitare traumi e scissioni.

Ma non basta: l’area che fa capo al governatore sconfitto minaccia di andare ad una conta sui capigruppo a voto segreto. Che potrebbe finire male (dati i numeri in equilibrio tra le due truppe), con conseguenze disastrose per la segretaria al suo esordio. Intenzionata malgrado tutto a indicare come nuovi capigruppo Francesco Boccia al Senato e Chiara Braga alla Camera: figure di primo piano del suo giro stretto. Una delle quali, Braga, vicinissima a Dario Franceschini, il più influente tra i big che hanno sponsorizzato il nuovo corso. Motivo questo di scontento della sinistra che fa capo a Orlando e Provenzano, che rischia di restare senza rappresentanza nei due rami del Parlamento pur avendo sostenuto Schlein. «Non voglio essere coinvolto in nulla», va ripetendo Provenzano nei capannelli alla Camera, pur essendo tra i papabili al ruolo. Mentre l’ex ministro del Lavoro dice che sarebbe più giusto lasciare alla minoranza di Bonaccini uno dei capigruppo e che la soluzione più semplice sarebbe confermare Debora Serracchiani. La capogruppo attuale, se davvero si arrivasse ad una conta potrebbe rimettere il suo nome nell’urna del gruppo alla Camera, mentre al Senato potrebbero concorrere Graziano Delrio, Enrico Borghi o Alessandro Alfieri.

Ma Schlein, sulla base del principio che Bonaccini ha preferito il ruolo superpartes di presidente del partito a quello più organico di vicesegretario, ritiene giusto assegnare a due figure della maggioranza a suo favore entrambe le cariche apicali in Parlamento. Tanto che giorni fa ha chiesto a Bonaccini di sondare il terreno tra i suoi. E il responso consegnatole dopo una rapida verifica degli sherpa nei gruppi è stato che «il sondaggio ha dato esito negativo, non sui due nomi proposti, ma sul metodo del prendere o lasciare». Tradotto, se decidi da sola, noi non ci sentiamo più vincolati a nulla. Tradotto ancora più chiaro da uno del suo staff, «avere Stefano capo dell’opposizione con le mani libere dovrebbe preoccuparla, quindi da qui a martedì magari tratterà…».

Del resto l’appello a soluzioni non imposte lo fa anche Lorenzo Guerini, leader della corrente riformista e cattolica del Pd, convinto che «sarebbe utile arrivare a scelte condivise sui capigruppo, perché il risultato congressuale è complesso e va interpretato bene, quindi meglio per tutti lavorare in una direzione unitaria». Un modo diplomatico per dire che se al primo giro di boa, Schlein procederà con forzature a senso unico, allora sarà difficile parlare di gestione condivisa di tutte le scelte future.

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