Regioni a statuto speciale, ecco i privilegi: perché sono a spese di tutti noi
Lo Stato, dunque, non ha di fatto spese minori, in compenso le Rss hanno il doppio delle risorse da utilizzare per i loro territori: la media delle spese per i propri cittadini è di 7.096 euro pro-capite contro i 3.688 delle altre Regioni. E poi quando c’è un problema si batte cassa, come è il caso della Sicilia, che sui 12 miliardi che gli servono ogni anno per la sanità, 6 se li fa dare dallo Stato.
Che cosa ci fanno con i soldi in più
Nelle Regioni a statuto ordinario le spese correnti per l’istruzione (stipendi insegnanti, materiale didattico, personale amministrativo, ausiliare, ecc.) pesano in media su ogni cittadino 815 euro l’anno. Trento e Bolzano possono permettersi di spendere rispettivamente 1.495 euro pro-capite e 1.304, e la Valle d’Aosta 1.225. Tradotto: il dirigente scolastico di un liceo a Trento guadagna 99.656 euro lordi l’anno, mentre a Vicenza, a parità di anzianità di servizio non supera i 63.000 euro.
E per quel che riguarda l’edilizia scolastica Bolzano può permettersi di investire 205 euro pro capite, Trento 109 e la Valle d’Aosta 60, contro la media di 36 euro delle Regioni a statuto ordinario. Lo stesso discorso vale per il personale della pubblica amministrazione, che è più numeroso e quindi può offrire servizi più capillari ai cittadini. È vero che dovendo svolgere più funzioni è necessaria una maggiore presenza di personale dipendente dalla Regione, ma quel personale è anche pagato meglio: la spesa pro-capite è di 2.580 euro contro la media di 1.862 delle altre Regioni.
Ingiustificabili invece gli stipendi dei consiglieri regionali, come mostra un’elaborazione dati di Matteo Boldrini (Luiss-Cise), Silvia Bolgherini (Università di Perugia) e Luca Verzichelli (Università di Siena). Tra indennità e rimborso forfettario, i consiglieri senza altri incarichi della Valle d’Aosta (124 mila abitanti) si mettono in tasca 7.871 euro al mese, 8.800 quelli del Friuli Venezia Giulia, circa 10.500 in Trentino Alto Adige e Sardegna, 11.100 in Sicilia. Giusto per fare un confronto con Regioni che hanno più o meno lo stesso numero di abitanti: nelle Marche siamo a quota 9.100, mentre il consigliere dell’Emilia Romagna ne incassa 7.250.
Che cosa può succedere
I precedenti tentativi di regionalismo differenziato finora sono finiti nel nulla. La prima a partire è la Toscana con la proposta degli enti locali del 2003 di ottenere «autonomia speciale nel settore dei beni culturali e paesaggistici», ma la procedura non viene portata avanti. Nel 2017 l’Emilia Romagna tenta di avviare un negoziato per gestirsi l’internazionalizzazione delle imprese, ambiente e sicurezza sul lavoro. Ci riprova nel 2019 sull’Irap, che è una tassa regionale: vorrebbe applicare un’aliquota più bassa alle aziende che stanno sui crinali di collina, perché più svantaggiate di quelle che stanno a valle. Niente da fare. In Lombardia e Veneto la richiesta di avviare trattative con il governo passa dai due referendum del 22 ottobre 2017 (qui la cronistoria). Adesso dipenderà da come sarà il testo finale della legge. Se il criterio guida sarà quello della programmazione, ovvero di capire qual è il soggetto che a parità di risorse può fare meglio, potrebbe essere una buona cosa. Prendiamo i fondi del Pnrr per l’edilizia scolastica: sono andati ai comuni saltando le Regioni, ma molti comuni quei progetti non saranno in grado di realizzarli per mancanza di competenze.
Certo, se dal nulla si va invece verso 20 regioni autonome il rischio è di un caos regolamentare, amministrativo e di cassa, perché quando i soldi non bastano chi interviene? Durante l’emergenza Covid nelle 5 Regioni speciali non solo i ristori sono stati finanziati con la fiscalità generale, ma lo Stato ha anche azzerato il loro concorso alla finanza pubblica, che s’aggira sui 2,3 miliardi di euro l’anno. dataroom@corriere.it
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