Vini (e super mancia). Obama al ristorante servito da mio figlio
Gli aneddoti sull’ex presidente Usa: in Cina al G20 di Hangzhou il 2 settembre 2016 Xi Jinping lo umiliò
Il mio ricordo più imbarazzante su Barack Obama risale agli ultimi mesi della sua presidenza. Lo seguii al G20 di Hangzhou il 2 settembre 2016, nell’antica capitale cinese della seta resa celebre da Marco Polo. La presidenza cinese che organizzava il vertice orchestrò un dispetto all’ospite americano. Quando l’Air Force One atterrò sulla pista, c’erano telecamere di tutti i network mondiali per riprendere il leader che si affaccia allo sportello del Jumbo 747 e scende dalla scaletta. È una scena vista cento volte ma conserva una solennità. Quella volta lo sportello non si aprì. Io ero lì con i giornalisti accreditati alla Casa Bianca. Passavano i minuti, molti, e lo sportello rimaneva chiuso. Il comandante dell’Air Force One non poteva aprirlo: il personale di terra dell’aeroporto non forniva una scaletta abbastanza alta per arrivare al «muso» del Jumbo.
La tensione era palpabile per l’incidente tecnico-logistico senza precedenti. Alla fine si vide in movimento sulla pista una scaletta, ma troppo bassa. La misero davanti all’uscita di servizio, sotto la coda, praticamente al «sedere» del Jumbo. Passò altro tempo in trattative febbrili tra americani e cinesi. Vinsero i padroni di casa che controllavano la logistica del cerimoniale di Stato. Obama dovette, per la prima volta nella storia dei viaggi ufficiali, uscire dal retro dell’Air Force One, alla chetichella, in una zona oscurata sotto i motori, invisibile alle telecamere che lo avevano atteso dall’uscita d’onore. Il suo arrivo fu reso irrilevante. Lo screzio venne dimenticato. Guai a sottovalutare questi segnali. Nella cultura cinese non c’è disastro peggiore che il «perdere la faccia». Quel giorno Xi Jinping aveva umiliato il leader americano. Due mesi dopo vinse l’elezione Trump, il quale non si lasciò mai sfuggire un’occasione per accusare Obama di ingenuità nei rapporti con i cinesi. L’ex vice di Obama, Joe Biden, si è convinto che la Cina sia una potenza antagonista, il cui espansionismo va contenuto. Forse quel gesto di Xi al G20 era una premonizione. LEGGI
Ho intervistato Obama due volte. La prima il 17 ottobre 2016 quando lui accolse alla Casa Bianca l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che piaceva ai democratici americani. Già allora era emergenza profughi nel Mediterraneo. Obama volle soffermarsi su questo. «L’Italia — mi disse — è in prima linea nella crisi dei rifugiati, una catastrofe umanitaria e un test della nostra comune umanità. Le immagini di tanti migranti disperati, uomini, donne e bambini che affollano piccole imbarcazioni e annegano nel Mediterraneo, sono più che strazianti. L’Italia ha un ruolo di leadership. Ha salvato la vita di centinaia di migliaia di migranti, si adopera per arrivare ad una risposta compassionevole e coordinata alla crisi, mettendo in evidenza la necessità di dare assistenza ai Paesi africani da cui tanti di questi migranti provengono». Lui in quel momento stava affrontando un dramma simile a casa sua, al confine con il Messico, dove tentava di arginare l’ingresso di clandestini, usando anche dei metodi duri (centri di detenzione, minorenni separati dai genitori, deportazioni) che poi avrebbero fatto scandalo sotto la presidenza Trump.
La mia seconda intervista mi rimane impressa per la sincerità. Dicembre 2020. Era ormai un ex presidente da quattro anni, il periodo trumpiano si era appena concluso con la vittoria di Biden. «Fare il presidente degli Stati Uniti — mi disse Obama — è come partecipare a una gara di staffetta. Prendi il testimone da chi ti ha preceduto: alcuni erano degli eroi, altri erano al di sotto dell’ideale. Se corri al meglio delle tue forze, quando passi il testimone la nazione o il mondo saranno un po’ meglio di prima». Questa descrizione era tipica del personaggio, consapevole dei propri limiti e dei limiti della politica in generale; un uomo capace di osservare se stesso e l’America quasi dall’esterno, con distacco, disincanto. Sfoderava il tono pacato che ricordo della sua presidenza. Non tutti lo ammiravano per quello. La destra lo scherniva come «il presidente che girava il mondo a scusarsi per le colpe dell’America»: una forzatura, però coglieva una sua caratteristica, la consapevolezza del declino relativo degli Stati Uniti. Un atteggiamento più da studioso di geopolitica che da leader. A sinistra contro di lui c’è una lunga litania di lamentele. L’ala socialista del partito democratico non gli perdonò mai i salvataggi dei banchieri nella crisi del 2008. Black Lives Matter e gli intellettuali dell’estremismo antirazzista lo accusavano di «non essere nero abbastanza».
Lui aveva il torto di non condividere la cultura del vittimismo, la recriminazione arrabbiata, la ricerca costante di risarcimenti, il razzismo a rovescia contro i bianchi, l’apologia della violenza. Nella deriva sempre più intollerante della woke culture, Obama ha una macchia: governò da moderato. Una volta pensionato, non gli giova di avere accumulato un patrimonio di 70 milioni con il successo dei libri; e di frequentare troppe celebrity multimilionarie, da Richard Branson a Bruce Springsteen. Resta il fatto che nella sinistra dei campus universitari non va giù la saggezza di Obama che mi parlava così: «La democrazia funziona se ti siedi attorno a un tavolo con persone che non la pensano come te, e cerchi di convincerli. Se non ci riesci, accontentati di quello che ottieni. Perché in una nazione pluralista, nessuno mai ottiene tutto quello che vuole».
Ma l’intervista con Obama che ricordo con più gusto — e invidia — è di un altro Rampini: mio figlio Jacopo, attore, ebbe con lui un contatto più intimo e molto meno convenzionale.
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