La stanga di De Gasperi e la forza di Mattarella

Come si dice: altri tempi, altre tempre. Oggi voliamo decisamente più in basso. Giorgia Meloni è quel che si temeva: un’erma bifronte, che mescola equilibrismi da statista dorotea e cattivismi da comiziaccio di Vox. Da una parte c’è Meloni, che in politica estera e in politica economica tiene in sicurezza il Paese, ancorandolo all’alleanza euro-atlantica e ai tetti di bilancio. Dall’altra parte c’è Giorgia contro tutti, che urla “sono madre” in Parlamento pensando che questo sia sufficiente a negare la “strage di Stato” consumata nello Ionio un mese fa, che accusa l’opposizione perché fa il suo mestiere, che considera ogni critica una lesa maestà e un oltraggio “all’immagine della nazione”, che copre qualunque sciocchezza dei suoi alleati Berlusconi e Salvini e qualunque nefandezza dei suoi “camerati” Donzelli e Delmastro, Larussa e Rampelli, Valditara e Cirielli.

Si sta avverando la profezia pre-elettorale: l’Italia meloniana si trasforma in una Piccola Polonia. Fuori dai confini i patrioti calcano l’elmetto della Nato senza se e senza ma, dentro i confini incarnano la destra più retriva e aggressiva del Continente. La macelleria dei diritti minacciata e praticata in queste ultime settimane fa spavento, ma ha senso solo in questa chiave: i Fratelli d’Italia non possono fare la “grande rivoluzione sovranista” e anti-europeista che avevano promesso ai loro elettori, causa vincolo esterno e scarsità di risorse, quindi li ricompensano offrendo il peggiore armamentario ideologico, intollerante e oscurantista, dei sedicenti “conservatori europei”. E dunque. Crociate xenofobe contro “i migranti che non devono partire” e “le borseggiatrici rom che usano i figli per fuggire dalla galera” (che nessuna legge voleva “condonare”). Campagne ciniche contro i bambini nati da coppie omogenitoriali e “contro la pratica barbara dell’utero-in-affitto-reato-universale” (che nulla c’entra con le registrazioni all’anagrafe e con le adozioni). Rimozioni e manipolazioni storiche sul fascismo, senza mai nominarlo per non disturbare i nostalgici del Ventennio e i reduci del Movimento Sociale.

È il riflesso esatto dell’analisi di Massimo Cacciari e di Luigi Manconi: siamo lo Stato europeo col più alto debito, ed è questo il vero sovrano che decide il nostro posto nel disordine del mondo. Il resto è sovrastruttura, cioè “ordine interno” affidato a pratiche sempre più dispotiche, in un misto di paternalismo compassionevole e di rigore securitario, di libertà conculcate perché catalogate come devianze e di “buone pratiche” da premiare perché normate dal potere dominante. Fuori siamo “Stato debitore”, dentro siamo “Stato etico”.

E qui risaliamo sul Colle, che è sempre più “altro” da tutto questo. La presenza di Mattarella, in senso politico, simbolico e anche fisico, sembra riempire l’assenza di Meloni. Mattarella c’è a Sanremo, alla messa cantata e nazional-popolare della Repubblica, non per seguire il Festival con Amadeus ma a festeggiare i 75 anni della Costituzione con Benigni. Mattarella c’è a Cutro, a pregare in silenzio di fronte a quelle bare di bambini, di donne e di uomini annegati nel mare della nostra indifferenza. Mattarella c’è a Nairobi, a demolire le false illusioni dei Paesi ricchi che propugnano il primato dell’economia sull’Apocalisse ambientale. Mattarella c’è a Casal di Principe, a celebrare le vittime di tutte le mafie, a sollecitare i partiti alla ricerca della verità e a invitare i giovani a non arrendersi mai a Cosa Nostra. Mattarella c’è alle Fosse Ardeatine, a condannare gli orrori del nazismo e del fascismo e a rendere omaggio alle tombe di quei 335 “colpevoli” non di essere “italiani” (come sostiene falsamente la premier) ma di aver combattuto la dittatura mussoliniana e di aver scagliato questa “colpa” in faccia ai loro aguzzini (come scrive giustamente Giovanni De Luna). E Mattarella c’è a Firenze, appunto, a dare la scossa a un Paese confuso e illividito che non può lasciarsi sfuggire i 191 miliardi del Next Generation Eu. In nessuna di queste occasioni abbiamo visto o sentito la presidente del Consiglio, che tutt’al più ha lasciato traccia di sé per sgrammaticature istituzionali o forzature storiche.

In tempi meno bui avremmo parlato di “pedagogia repubblicana”. O magari di “supplenza”. Ma qui siamo già oltre. Il Capo dello Stato, con la sua voce e con il suo corpo, non riempie solo i vuoti lasciati dal capo del governo. La missione del Quirinale non è banalmente sostitutiva, rispetto ai doveri e ai compiti di Palazzo Chigi. Appare invece sempre più alternativa, in termini di valori, principi e priorità.

So bene che il Capo dello Stato non apprezza una lettura “frontista” del suo magistero, che può accrescere ulteriormente distanze, diffidenze e in prospettiva anche attriti tra le due istituzioni. Ma non si può non vedere l’abisso che c’è, in termini di cultura politica e costituzionale, tra questo Presidente al suo secondo mandato e questa destra alla sua prima prova di governo. Dobbiamo saperlo. Dobbiamo essere fieri che la più alta magistratura della Repubblica sia in mani così solide e sicure. Ma dobbiamo difenderla e preservarla. Perché verranno giorni difficili, tra mancate riforme fiscali e probabili conflitti sociali, tragedie migratorie e commedie comunitarie, spinte autonomiste e controspinte presidenzialiste. Perché anche la nostra democrazia, resiliente ma logorata, non è immune da torsioni autoritarie o tentazioni plebiscitarie. L’Uomo della Provvidenza, un secolo fa, l’abbiamo già avuto e non ha funzionato. Riprovare con la Donna della Provvidenza, oggi, non pare una grande idea. Come dice Gustavo Zagrebelsky, il parlamentarismo è lento, va riformato, ma almeno obbliga all’ascolto, al dialogo, al confronto. Pare poco. Invece è tutto.

LA STAMPA

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