Nomine, la mossa del cavallo della premier: manager blindati per lanciare il Pnrr
Lucia Annunziata
Giorgia Meloni ha avviato il primo vero consolidamento del suo governo. O, a voler essere un po’ spregiudicati, ha avviato un rafforzamento (al momento senza precedenti) dei suoi poteri. Entro giovedì 13, dopodomani, dovrebbero essere messi nero su bianco in un’unica tornata i nomi dei nuovi vertici di Enel, Eni, Leonardo, Poste e Terna. E il progetto della premier è di nominare uomini da lei indicati nelle posizioni apicali proprio di queste aziende.
Domani un Consiglio dei ministri dedicato alle decisioni dovrebbe farci capire meglio questa mossa. Curiosa pretesa, quasi una prevaricazione, per un governo che fa vanto della sua unità interna. Ma è proprio questa “pretesa” a costituire la novità: è la presa di distanza del solito accordone. Proprio per questo, dicono gli osservatori, non è facile che la mossa della premier riesca. A maggior ragione val la pena dare uno sguardo più da vicino a quella che appare come una atipica mossa del cavallo. Emanuele Macaluso, scomparso da non molto, lucido fino alla fine, per spiegare la affrettata conclusione nel 2014 del governo Letta disse in una intervista a “Italia oggi”: «Letta è saltato per cinquanta manager, Renzi non poteva lasciarli all’ex premier». Con una vaga eco dei trenta dinari, il giornalista, molto amico di Giorgio Napolitano, inchiodava al muro la farfalla dell’ennesima illusione della politica: che le nomine di grandi aziende di Stato siano un atto di competenza e generosità pubblica. Un servizio ai cittadini, insom
In particolare negli ultimi dieci anni, periodo di governi brevi e scarsa riconoscibilità pubblica, le nomine sono diventate sempre più uno straordinario strumento di “consolidamento” delle deboli fondamenta di questi esecutivi. Non è accaduto con tutti, ovviamente. Ognuno dei premier ha dato a questa tendenza un’ interpretazione più o meno istituzionale, più o meno moderata. Ma in almeno tre casi le nomine sono state il cuore del passaggio politico. Di Renzi abbiamo detto – e come spesso succede il politico fiorentino ha intercettato bene il significato dei tempi. Il secondo caso di scuola è quello del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, la cui abilità di passare senza nessun danno, da un governo con Salvini, a uno con il Pd, è spiegata proprio con il desiderio dei due partiti del Conte 2 di arrivare alle nomine. E, a proposito, guardando il calendario colpisce ancora oggi che lo stesso governo Draghi, che seguì al Conte 2, sia stato azzoppato da una crisi di governo prima del marzo in cui sarebbe partita la tornata delle nomine che avrebbe dovuto fare lo stesso Conte.
Potente tentazione, dunque, le nomine. E lo sono, evidentemente, anche per il premier Giorgia Meloni che vi è arrivata alla partita con il piglio e la lista della battaglia decisiva del suo mandato. Curioso, no? Ma non era una leader forte fortissima? Torniamo così alle domande iniziali: perché la premier ha deciso di giocare duro questa partita invece di usarla per premiare e aumentare il consenso dentro la sua maggioranza? Insomma, che cosa rimugina Giorgia Meloni in questo momento?
La risposta è in parte semplice, come si diceva: nelle nomine c’è l’idea di poter accumulare un potere dirimente. Desiderio in sé nei fatti in linea con l’altra tentazione dei tempi attuali – l’idea che in politica è dirimente un leader forte. Rimane tuttavia singolare che l’attuale governo, nonostante possa dire, come fa spesso, che a differenza dei precedenti ha legittimità piena perché ha raccolto un chiaro e forte mandato politico, abbia bisogno di “dimostrare” di avere questo forte mandato.
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