Lo scacco matto della Premier
Stefano Lepri
Un leader che vuole durare deve tentare di guardare più in là dei partiti che lo sostengono; deve almeno far mostra di sottrarsi a patteggiamenti di potere quando si tratta di aziende che hanno un peso importante nell’economia del Paese. Giorgia Meloni ha intrapreso questa sfida con ambizione ma deve accettare compromessi.
Riuscirà a imporre alla guida di Leonardo, ex Finmeccanica, azienda di importanza anche militare, un tecnico senza etichette di partito come Roberto Cingolani (che però ha scarsa esperienza come manager). Rischia invece di subire il recupero come presidente Enel di Paolo Scaroni, che all’Eni fino al 2014 promosse la dipendenza dalle forniture di gas russo.
Comunque vada, dopo un accordo frutto di vari do ut des, le nuove dirigenze societarie che usciranno da questa prova saranno meno forti. Non va bene, proprio in una fase in cui nuovi importanti investimenti, quelli legati al Pnrr, richiederanno anzi maggiore incisività ed efficienza, specie da parte di chi si occupa di energia.
Si è discusso di poltrone da occupare senza mai discutere nel merito se i capi azienda da sostituire o da confermare abbiano operato bene o male durante i loro mandati; se alcune scelte fossero buone o cattive, o se semplicemente, dopo anni che la stessa persona è alla guida, si ritiene preferibile un ricambio.
Le questioni di sostanza restano eluse. L’Eni ha saputo realizzare in poco più di un anno prima sotto il governo Draghi poi sotto l’attuale, una conversione rapida delle forniture per svincolarsi da Mosca. Però non si è mai chiarito se le alternative ora sfruttate, come l’Algeria, fossero state disponibili già da prima e perché fossero state scartate.
Se scelte anche valide, su queste aziende che molto contribuiscono all’immagine dell’Italia all’estero, vengono controbilanciate da patteggiamenti su altre, si rischia di allarmare gli investitori privati dai quali proviene una fetta consistente del capitale azionario. Sarà lecito domandarsi se d’ora in poi le mosse aziendali saranno sottoposte a maggiore influenza politica.
Negli anni ’80, furono queste pratiche perverse – compresa la «lottizzazione» degli incarichi di dirigente fino ai livelli intermedi – a completare il dissesto di aziende già deformate dal loro asservimento a scopi di consenso politico. Alcune furono chiuse, altre vendute; negli anni ’90 nuovi manager capaci dovettero faticare molto per ritrovare l’efficienza, ma per fortuna ci riuscirono.
Quei tempi non possono ritornare. Mercati aperti e concorrenziali e azionisti di minoranza attenti non lo permettono. Ai manager poco disposti a sottomettersi è più facile sbattere la porta. Però in un Paese dall’amministrazione inefficiente e dalla politica sempre assai permeata dalla corruzione le grandi partecipate di Stato svolgono un ruolo cruciale.
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