Il pacifismo arcaico: ancorato al passato, il movimento non si è evoluto
La guerra e i suoi alchimisti invece hanno fatto enormi progressi non solo nella tecnologia della morte, ma anche nei sortilegi propagandistici, nel renderla accettabile, giusta, sacrosanta, inevitabile, democratica, redditizia. Dalla campagna della «guerra al terrorismo» a «la Russia dopo Kiev vuole arrivare a Lisbona» la comunicazione bellicista continuamente si aggiorna, si modella su nuove necessità, sa meticolosamente occultare la dannazione dell’uccidere e il grande affare che si cela dietro ogni conflitto, ad ogni lucroso aggiornamento tattico dell’arte occidentale di vincere: dal drone al redditizio revival del carro armato, dal super cannone all’antimissile che non erra, tutto passa come pedigree di infallibile modernità occidentale. La dialettica degli entusiasti, politici, analisti, armaioli di tutte le stazze, non soffre timidezze, cammina su binari inflessibili la cui stazione finale è la guerra permanente. Sono riusciti ad imporre una deforme religione collettiva e indiscutibile, una forma di detestabile superbia senza reticenze che entrando dappertutto lascia solo deboli margini alla civiltà abbandonata. Invitano gli intellettuali a starsene quieti nel loro studiolo, a scriver versi o a rimirar le stelle invece di spandere sillabe al vento su «cose di cui non sanno nulla». Ne è un esempio la polemica innescata dalle parole del fisico Carlo Rovelli al concerto del primo maggio sui «piazzisti di strumenti di guerra», e sul ministro della Difesa Crosetto «vicinissimo a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo, Leonardo».
Il pacifismo invece è rimasto all’epoca della sfilata di rassegnata testimonianza, allo striscione con i colori arcobaleno, alle colombe più o meno picassiane, ai buoni sentimenti, alla evidenza della santità della pace e dell’orrore della guerra come morte. Le ragioni del rifiuto non sono avanzate molto oltre alla evangelica opportunità di essere buoni e che uccidere è male.
E invece bisogna cambiar metodo, diventare aggressivi, incalzanti, far guerra alla guerra con gli stessi metodi totali, tenendo conto che siam o in tempi di miserabile avarizia morale. Gridar chiaro e tondo che, poiché l’intelligenza non ha impedito lo scoppiare della guerra ed è giusto che ci si batta per il proprio popolo, il pacifismo esige che la guerra non sia né fanatica né totale e che anche coloro che sono sul campo di battaglia, soprattutto loro, mantengano ben salda la cittadella della intelligenza. E che è infame che le diplomazie invece di creare le condizioni di una conclusione onorevole, si lascino inghiottire dal silenzio o dal mito torbido della vittoria che annienta il nemico anche in quanto ha di civile.
Bisognerebbe denunciare sugli striscioni i nomi e i fatturati da un anno a questa parte delle industrie della «sicurezza» che invece si maneggiano come riguardose arcadie produttive, americane, russe, cinesi, italiane, francesi, ucraine, gli stipendi dei loro manager, spiattellare i misteri dei dividendi, i collegamenti con la politica la finanza il malaffare. Ricordare che, esaurite sul campo ucraino senza esiti mirabolanti offensive e controffensive, verrà il momento in cui non potremo accontentarci di guardarli i campi di morte, alimentando l’eroismo dei buoni, dovremo fornire anche uomini, uomini per alimentare il massacro e allora sarà troppo tardi. Chiedere, poiché siamo democrazie, di contare chi è maggioranza e non con i sondaggi: contare i dubbiosi di questa partita senza fine e i favorevoli alla guerra fino alla vittoria.
LA STAMPA
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