Pace e difesa, partita doppia in Europa

Per niente turbata (al pari degli altri europei) dall’aggressione alla Georgia del 2008, Merkel scelse di non vedere cosa la Russia stava preparando al mondo. E perseverò (diabolicamente) quando, nel 2014, Putin invase il Donbass e si prese la Crimea. Per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, una grande potenza violava il tabù su cui si fondava la pace in Europa (il tabù secondo cui i confini possono essere cambiati solo consensualmente) ma Merkel non modificò di un millimetro il suo atteggiamento verso la Russia. In combutta con il suo amico Putin mise intorno al collo di una Ucraina prostrata il cappio denominato «accordi di Minsk». In più, mentre fingeva di non vedere e di non sentire, sotto il suo governo, dopo il 2014, la dipendenza della Germania dal gas russo aumentò anziché diminuire. Dando così a Putin la sensazione di poter imporre agli europei, tramite il ricatto energetico, qualunque sua decisione. È vero: anche l’Italia faceva le stesse cose ma è evidente che se la Germania avesse cambiato politica, gli italiani si sarebbero dovuti adeguare.

È questo cumulo di errori che spiega perché il giudizio generale su Angela Merkel sia così repentinamente cambiato. La ex cancelliera ci ha lasciato (del tutto involontariamente) un insegnamento su ciò che non si può e non si deve fare.

In Ucraina si giocano contemporaneamente due partite. La prima riguarda, ovviamente, il destino di quel Paese. Il sostegno occidentale è vitale per aiutare gli ucraini a liberare il proprio territorio dall’invasore. La seconda partita, altrettanto vitale, per noi e per la pace in Europa, riguarda la necessità di creare proprio ciò che è mancato e che spiega l’invasione: un sistema di deterrenza così potente e soprattutto così credibile da inibire futuri tentativi russi di rimettere di nuovo in discussione i confini europei. Nella consapevolezza, che tutti dovrebbero avere a questo punto, che quella è l’unica strada disponibile per impedire una guerra generale in Europa.

Ma che un sistema di efficace deterrenza sia ricostituibile e in grado di durare nel tempo dipende, oltre che dagli esiti della guerra in Ucraina, anche dalla determinazione con cui gli occidentali sapranno sostenerlo. Saranno gli orientamenti che prevarranno nelle nostre democrazie a decidere se esse riusciranno a difendere la pace con le misure appropriate o se non ci riusciranno. Le opinioni pubbliche sono divise, in America come in Europa, a proposito dell’Ucraina. Che posizione assumeranno gli Stati Uniti se nelle prossime presidenziali vinceranno i repubblicani? Fino a quando sarà possibile in Europa arginare le pressioni di quella parte di opinione pubblica (in Italia è fortissima) che ha fatto proprio, adattandola ai nuovi tempi (post-comunisti), il vecchio motto «meglio rossi che morti»? È quella parte di opinione pubblica per la quale quanto accade in Ucraina non ci riguarda, dobbiamo farci i fatti nostri, non dobbiamo rischiare che Putin se la prenda anche con noi. Sono orientamenti diffusi che le minoranze politicizzate, anti-americane più che filo-putiniane, cercano di sfruttare per imporre la fine del sostegno europeo all’Ucraina.

La pace in Europa è appesa alla capacità di americani ed europei di resistere alle sirene di chi, per quieto vivere, vorrebbe renderci inermi, indifesi. La vicenda di Angela Merkel insegna: alla distanza, non sono le scelte che apparivano al momento più popolari quelle che decretano la grandezza di un leader. Sono le scelte giuste.

CORRIERE.IT

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