Kosovo ponte dell’odio, la città di Mitrovica è simbolo delle divisioni
dalla nostra inviata Letizia Tortello
KOSOVSKA MITROVICA. Per Milos Petrovic, 36 anni, il mondo «a Sud» finisce lì. In piazza Fratelli Milic a Kosovska Mitrovica, Nord del Kosovo, il «Muro di Berlino» che divide simbolicamente il Paese in due. Milos è alto un metro e novanta e ha il piglio guardingo. Controlla se ci sono infiltrati. Anche se un confine tra serbi e albanesi non c’è, chi si permette di varcare la linea simbolica dell’odio, in questa mattina di manifestazioni contrapposte, serbi del nord e albanesi del sud della stessa città, rischia grosso. Milos ha 36 anni, è seduto su un muretto dipinto coi colori della Serbia, sotto il monumento che ricorderà per sempre come eroi Srdjan and Boban Milic, due membri del Corpo d’Armata jugoslavo di Pristina, uccisi dalla Nato in un bombardamento nel ’99.
Sono le 12 e la piazza di Mitrovica Nord si riempie di gente. Serbi per lo più uomini e giovani. Come allo stadio, l’atmosfera ribolle. Nessuno di loro è lì per caso. È un raduno, anche se i militari della Kfor sono ovunque, quindi non è bene darlo a vedere. Milos guarda fisso dall’altra parte del ponte che lacera Mitrovica, su Telegram arrivano video e notifiche e le fake news si mescolano alla suggestione: «Gli albanesi si stanno muovendo, vogliono venire qui», si dice. A 150 metri di distanza oltre le arcate in cemento sul fiume Ibar, un centinaio di persone è sceso in strada, per farsi vedere e sentire. «Questo è il nostro Stato», urlano dei ragazzini albanesi. Spuntano al collo bandiere dell’Uck, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, simboli che sono fumo negli occhi per i coetanei al di là della passerella.
Per Endrit Hoxha, 22 anni, muscoli scolpiti che escono dalla maglietta nera, il mondo «a Nord» finisce lì. In un microcosmo di rivendicazioni tra etnie di una terra che non ha pace e convivenza, anche se il Kosovo si è reso indipendente dalla Serbia nel 2008, ma c’è ancora qualche capitale tipo Belgrado che non lo riconosce. Endrit è con gli amici all’ombra della statua di Isa Boletini, eroe albanese. «Se sono mai andato a Mitrovica Nord? Sì, qualche volta. Ma non mi interessa vedere quella gente, la peggior gente del mondo, i serbi», dice con rabbia. È arrivato da un villaggio vicino per sostenere la polizia kosovara. «Se non gli sta bene vivere lì, tornino da Vucic! – aggiunge, concitato –. Questo Stato è nostro, questo Stato è albanese! Dai Dardani, dagli Illiri, queste terre sono nostre. E anche Montenegro, Macedonia, anche la Grecia, se andiamo indietro. I serbi vedono una cosa e pensano che sia tutto loro».
Le camionette dei carabinieri presidiano il ponte di Mitrovica giorno e notte, ma in questo momento l’allerta è ai massimi livelli, dopo gli scontri di lunedì a Zvecan, tra serbi e militari della Nato, dove sono rimasti feriti 11 alpini e circa 50 persone tra soldati e civili. È un venerdì di festa al Sud, il “giorno dei bambini”, e si montano palchi per l’evento serale. Ma nessuno sa se il concerto si farà. Mai si era vista tanta tensione. «Questa è la nostra normalità. I serbi vogliono sfidare la nostra pazienza, se partono le molotov come l’altro giorno, scoppia la guerra». Al Nord, il racconto è l’esatto opposto. Si dice che due albanesi abbiano osato attraversare il ponte: «Hanno iniziato a provocare e sono stati picchiati», spiega Peter. È quasi la stessa generazione di Endrit, ma trovare chi abbia amici dalle due parti, a Kosovska Mitrovica, è molto raro.
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