Autobiografia di una nazione
MASSIMO GIANNINI
Alla fine, il Destino ha bussato anche alla sua porta. Non a Villa San Martino, che per quasi trent’anni è stata la quinta suntuosa dove lui stesso aveva trasferito e trasformato per sempre l’esecrato “teatrino della politica”. Ma al San Raffaele, il luogo di una sofferenza fisica che ha negato e fuggito sempre, in un’esistenza epica durata 86 anni che non contemplava la vulnerabilità e la fallibilità degli umani. Alla fine Berlusconi è morto lì, lontano dai suoi cani e dai suoi quadri, in quella lussuosa dependance ospedaliera che ha copiosamente finanziato e che l’ha curato e accudito ogni volta, per la tendinite o l’uveite, per il cancro o il Covid. Fino all’ultima caduta, quella fatale. Silvio, l’Immortale, stavolta non ce l’ha fatta. Non arriverà «fino a 120 anni», come si diceva sicuro di fare grazie ai miracoli del guru Zangrillo.
E commuove rivederlo adesso, in quell’ultima drammatica immagine pubblica del 6 marzo, collegato con la convention azzurra dalla sua magione sanitaria, per salutare e rinnovare l’appello alla vigilia delle amministrative. Gonfio, provato, esitante, con la voce lenta e impastata: «È il vostro affetto e il vostro abbraccio che mi ha consentito di superare una brutta polmonite… Mi raccomando, andiamo avanti così, io sarò con voi, con la stessa passione e lo stesso impegno del 1984…». E invece non c’è riuscito. La malattia se l’è portato via. Con lui se ne va un gigante che, nel bene e nel male, ha fatto la Storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. L’ha segnata e plasmata, rinnovata e deformata come nessun altro. Nel suo caso è pressoché impossibile scindere l’essere umano dal leader politico. Ma è uno sforzo doveroso, adesso.
Berlusconi morto, segui le news in diretta di oggi 13 giugno
Sul piano giornalistico, ho criticato e contestato il Cavaliere per più di quattro lustri. C’ero nel ’94, quando la “Repubblica” diretta da Eugenio Scalfari si schierò duramente contro la discesa in campo. C’ero nei vent’anni successivi, quando lo stesso giornale diretto da Ezio Mauro combatté, in nome dei principi della liberaldemocrazia, le leggi ad personam e il conflitto di interessi, il bavaglio ai media e l’attacco alla magistratura, fino alle famose “Dieci domande” di Giuseppe D’Avanzo. Fu uno scontro aspro, irriducibile. Per questo, dal 2015 in poi, mai avrei immaginato di poter ricevere due inviti dal Grande Avversario, a Palazzo Grazioli. Mai avrei pensato di poter trascorrere alcune ore insieme a lui, a scherzare e a ironizzare sul passato, pur mantenendo le rispettive opinioni. Mai avrei creduto di ascoltarlo, mentre mi mostrava due album pieni di fotografie che lo ritraevano insieme ai 100 capitribù libici: «Vede perché non riusciamo a rimettere a posto la Libia? Perché nessuno ha la pazienza di andare a parlare con ciascuno di questi signori!». Mai avrei sognato di ringraziarlo, dopo un’altra chiacchierata, mentre mi salutava con una pacca sulla spalla e con cinque scatole griffate Marinella: «Basta con queste cravattine da comunista che porta, si prenda un po’ di cravatte serie…». Erano larghissime, una dozzina di centimetri. Le ho fatte stringere, le metto ancora. Più simpatico e più empatico di lui, nessuno mai. Più seducente e più voglioso di piacere, piacendosi, nessuno mai.
Ma qui finisce l’umanità, e comincia la politica. E il giudizio cambia, come ho già scritto. Intanto, è inutile scervellarsi su cosa sarà di Forza Italia, su “chi dopo di lui”. Tajani o Ronzulli? Non vi sforzate di immaginare il dopo Berlusconi: come D’Annunzio, ma più triviale e teatrale del Vate, il Cavaliere ha vissuto una “vita inimitabile”. Dunque non replicabile. Si rassegnino figli e famigli, senatori e coordinatori, deputate e fidanzate, badanti e cantanti: al di là dei patrimoni miliardari e dei conti fiduciari, delle ville ottocentesche e delle residenze picaresche, non c’è un’altra eredità da spartire. Il suo finale di partita coincide inevitabilmente con la fine del suo partito.
Berlusconi è esistito anche senza Forza Italia: prima della politica c’erano già sia il costruttore seriale che ha sfornato Milano Due sia il tycoon televisivo che ha stravolto i nostri usi culturali e i nostri consumi commerciali. Ma Forza Italia non sarebbe mai esistita senza Berlusconi. Questo destino inscindibile è l’essenza stessa del “partito personale” che lui ha fondato e plasmato a sua immagine e somiglianza (e nel quale si sono beatamente rispecchiati corrivi cantori e cattivi imitatori, in Italia e nel mondo). Ed è l’effetto naturale e non collaterale dei tre lasciti che il Cavaliere consegna alla Storia italiana.
Il primo lascito è il leaderismo. Cioè la sacralità del comando e la natura octroyée del suo esercizio, dove ogni atto non è negoziato ma concesso dal sovrano al suddito. L’Unto del Signore, auto-investito di un mandato messianico e sempre titanico, è “sceso in campo” con una missione epocale: salvare l’Italia dai comunisti (benché rimanga in eterno il sospetto che l’abbia fatto per salvare se stesso dai processi). Per questo ha inventato dal nulla il “partito di plastica”, trasformando la rete della raccolta Publitalia nella tela del consenso azzurro, e in pochi anni lo ha trasformato nel “partito di Silvio”. Col suo carisma e col suo strapotere, tutto ha deciso e tutto amministrato. Con la sua spregiudicata destrezza e la sua smisurata ricchezza, ha applicato alla politica la regola che Enrico Cuccia adattava alla finanza: «ogni uomo ha un prezzo» (lui di suo ci ha aggiunto anche «ogni donna», come denunciò in una lettera leggendaria la ex consorte Veronica Lario). Nel Palazzo, come al Mercato, tutto si può comprare e vendere: leggi e sentenze, elettori ed eletti, concessioni e condoni.
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