Ghisleri: “Berlusconi cambiò linguaggio alla politica, più dei processi poté la moglie”
Annalisa Cuzzocrea
«Berlusconi aveva il costante bisogno di capire cosa accadesse nel mondo reale», lontano dalla vita ricca e privilegiata che conduceva. «Cercava una connessione e la trovava nei nostri racconti», dice Alessandra Ghisleri, la sondaggista che più ha collaborato con l’ex presidente del Consiglio. Fin dal 1999, quando aveva solo 27 anni.
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Se lo ricorda quel giorno?
«Era
un sabato e mi chiesero di andare ad Arcore. Ci arrivai così com’ero
vestita. Era il 1999, bisognava preparare le Regionali e le Europee. Il
presidente non mi aveva mai vista, mi squadrò, poi mi disse: “Si sieda
accanto a me con il computer così seguo lei mentre fate la spiegazione”.
Ero una ricercatrice junior, a dir poco intimidita».
Andò bene. E fu così per molto tempo. Cos’è che secondo lei ha determinato un successo durato tanti anni?
«Berlusconi ha dato vita al sogno americano, che è diventato un sogno italiano».
Il self made man?
«Ha
messo su aziende, ha dato lavoro, ha vinto tante scommesse importanti.
Ha portato un numero uno come Mike Bongiorno all’entertainment, un altro
come Enrico Mentana all’informazione. Per tante persone ha
rappresentato la possibilità di crederci».
E ha costruito un racconto di sé che va dal pianobar sulle navi da crociera all’impero immobiliare e televisivo.
«Nelle
elezioni del 2001, che consacrarono il suo successo politico, mandò
nelle case degli italiani un libro con la sua storia. Voleva scegliere
come essere raccontato».
La videocassetta mandata ai tg per la discesa in campo è la prima grande opera di disintermediazione in politica.
«Conosceva
benissimo i meccanismi della comunicazione ed era anche un attentissimo
osservatore. Prima di lui c’era una politica paludata che la gente non
capiva più. Lui ha cambiato il gergo, ha fatto una rivoluzione prima di
tutto nel linguaggio, poi nel comportamento. I suoi uomini dovevano
essere tutti vestiti in un certo modo. La cravatta larga era un timbro».
Studiava i sondaggi personalmente?
«Certo.
E mi richiamava se la grafica non era bella, se c’era un carattere che
non gli piaceva. Tutti a dimensione 18, per il vezzo di non portare gli
occhiali. Un giorno mi rimandò indietro un report con scritto di suo
pugno quale sua fotografia dovesse esserci, quando ne testavamo la
popolarità».
Vanità?
«No, perfezionismo. In
tutto. Anche nella strategia politica. Ogni mossa, dal discorso di Onna
al predellino, veniva decisa molto prima e testata prima con alcune
persone, poi con altre. Ascoltava tutti e alla fine decideva».
Di lei si è sempre fidato?
«Gli
dicevo le cose come stavano. Quando aveva sondaggi belli era così fiero
che li portava ai capi di Stato. E poi ha sempre avuto trovate geniali.
Ricordo quando nel 2009 mi chiamò: c’era appena stato il terremoto
all’Aquila, lui pensò di spostare lì il G8. Gli dissi che poteva essere
male interpretato, le persone stavano soffrendo, ma aveva ragione: ha
fatto in modo che il mondo vedesse quella sofferenza e ne fosse
partecipe».
Era un accentratore che non ha lasciato eredi politici.
«Ci ha provato. Prima il rapporto con Gianfranco Fini, poi con Angelino Alfano».
Il primo lo ha silurato con un gesto, il secondo dicendo che gli mancava il quid.
«Sapeva
essere chirurgico. Sono stati rapporti molto complicati. A me ha dato
delle chance pazzesche: mi ha portata al tavolo con i consiglieri di
Obama, Bush, Blair, Clinton. Voleva sempre studiare tutto. Imparava,
assimilava e se la rigiocava. E comunque, avocava a sé onori e oneri. Si
è sempre sobbarcato anche le cose più difficili».
Spesso sembrava voler sedurre anche gli avversari.
«Dopo
il discorso di Onna, quando mise il fazzoletto dei partigiani, lo
chiamai, era in elicottero con Bonaiuti. Gli dissi che aveva il 75 per
cento di indice di fiducia. Ci fu un momento di silenzio».
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