Il populismo e l’adesione ai valori occidentali
di Massimo Franco
Il fatto che Silvio Berlusconi abbia plasmato non solo il centrodestra ma, quasi di rimbalzo, la stessa opposizione di sinistra, dilata gli interrogativi sul futuro. Non solo quello di Forza Italia, partito del quale era padrone, non semplice leader. Ma dell’intera maggioranza e, più in generale, del sistema politico. La fretta con la quale i fedelissimi assicurano continuità nel suo nome riflette questa incertezza. E acuisce l’impressione di un elettorato che si sente orfano.
Ma probabilmente sono altrettanto nostalgici molti dei nemici che hanno mostrato rispetto nei suoi confronti soprattutto quando non ne hanno avuto più paura: e cioè dopo almeno due decenni di subalternità culturale, prima ancora che politica; e dopo avere tentato e sperato a lungo di sfruttare i processi nei quali era imputato per metterlo fuori combattimento. La sua dote di federatore della nebulosa anticomunista è stata indubbia. E lo ha reso l’interprete più naturale di un sistema maggioritario fondato sulla personalizzazione del potere e su un’evocazione di «sogni» di cui un’Italia disorientata dalla fine della Guerra fredda si è nutrita golosamente.
Anche per questo Berlusconi è stato additato come una sorta di precursore del populismo: fenomeno che negli anni è stato imitato un po’ da tutti, e non solo in Italia. Eppure, accanto alla retorica antisistema Berlusconi ha tenuto ferma un’adesione ai valori occidentali, entrata in collisione con un’Europa assillata dal debito dei suoi Stati membri. L’allontanamento da Palazzo Chigi, nell’autunno del 2011, non dipese dagli scandali o dai processi ma dal rapporto conflittuale e compromesso con l’Unione europea; e dal rischio di un collasso finanziario dell’Italia per le riforme mancate.
Nella narrazione berlusconiana e in quella dei suoi ammiratori, perfino in Vaticano, ristagna la tesi del complotto ordito dal Quirinale e dai «poteri forti» internazionali. Da allora, il Cavaliere non ha smesso di rivendicare le sue ragioni e alimentare la propria leggenda di vincente. Senza tuttavia riuscire, anche psicologicamente, a preparare una successione: come se la storia di FI dovesse cominciare e finire con lui. Probabilmente era inevitabile. Per questo non sorprende il vuoto che lascia. L’omaggio tributatogli dalla premier Giorgia Meloni e dal capo della Lega, Matteo Salvini, oltre che dovuto a chi li ha portati al governo nell’ormai remoto 1994, è un segnale al suo mondo.
Esiste un bacino di consensi oggi ridotti, come hanno dimostrato le elezioni del 25 settembre del 2022. Eppure tuttora ancorati alla personalità berlusconiana, al suo ruolo nel Partito popolare europeo, e a un moderatismo che Meloni e Salvini non rappresentano né intercettano pienamente. Si tratta dunque di voti «strategici», e da ieri più che mai in libera uscita: anche se difficilmente potranno essere ereditati in automatico dagli alleati; tanto meno dagli avversari storici. Renderanno semmai più acuta l’esigenza di trovare un contenitore in grado non solo di esprimerli ma di aumentarli.
In questi mesi, pur soffrendo per lo spostamento dei rapporti di forza a favore di FdI, e nonostante l’imbarazzo di Palazzo Chigi per la sua amicizia con Vladimir Putin, Berlusconi è rimasto un elemento di stabilità e di garanzia per l’unità di un centrodestra sbilanciato a destra. Adesso, la competizione tra Meloni e Salvini non avrà più la mediazione del leader di Fi, ma solo quella della famiglia e del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Per il resto, la maggioranza si troverà di fronte un partito oggettivamente in bilico. E questo potrebbe rendere urgente una fase nella quale sia Meloni, sia Salvini dovranno ricalibrare la propria identità.
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