La posta in palio è semplicemente la democrazia
MASSIMO GIANNINI
Per salvare l’Europa gli sono servite tre parole: “whatever it takes”. Per ricostruire l’Italia gliene basta una sola: “semplicemente”. Mario Draghi lo chiarisce in premessa, nel suo primo discorso al Parlamento e al Paese, interrogandosi sulla “natura” del suo governo, frutto della convergenza dei partiti rivali di quasi tutto l’arco costituzionale. Di fronte alla “varietà infinita delle formule” usate e abusate finora, il premier ripiega su quella che pare più banale ma che invece tutto riassume e tutto spiega: quello che guida non è Grosse Koalition o Larghe Intese. È “semplicemente il governo del Paese”. La formula più semplice, appunto. E tuttavia tecnicamente rivoluzionaria, in un’Italia disabituata da troppi anni a pensare ed agire in base all’interesse generale, al senso collettivo, al bene comune.
Nel tornante più ripido e insidioso della Storia, e dopo un silenzio durato una settimana esatta, il nuovo presidente del Consiglio parla per cinquantuno minuti e offre al Paese il suo manifesto per una “nuova ricostruzione italiana”. Un condensato di spirito repubblicano, che parte da un padre della Patria come Cavour e arriva ai valori profondi e alle visioni forti del secondo dopoguerra. Una lezione di politica alta, di impronta tendenzialmente “liberalsocialista”, come il premier si definisce ripensando alla scuola del suo maestro Federico Caffè, che cala i principi nella dura realtà e non confonde i risultati con gli obiettivi. Non stupisce che a pronunciarla sia il più “impolitico” dei presidenti del Consiglio, come già successe a Ciampi nel 1993. In questa nazione irrisolta capita spesso che proprio alle riserve della Repubblica tocchi il compito di preservarla e, nei momenti più bui, persino di rifondarla.
È semplice il messaggio alla politica, che il premier “prodotto” da una crisi di sistema potrebbe maltrattare e invece rispetta, negando persino il suo palese fallimento di queste ultime settimane. Di fronte alla pandemia che ci sovrasta, è il momento di condividere una “responsabilità nazionale” senza la quale non vinceremo la battaglia. Di fronte all’economia che si sgretola, nessuno deve fare passi indietro rispetto alla propria identità, ma tutti un passo avanti per rispondere ai bisogni quotidiani di famiglie e imprese. Questo chiede ai partiti che hanno scelto di entrare in un “nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione”. Semplice, per un Paese normale. Come semplice è l’ancoraggio “convintamente europeista e atlantista” di questo governo. Cos’altro dovrebbe fare, un Paese fondatore dell’Unione? E invece il concetto suona tutt’altro che ordinario, rispetto al Conte giallo-verde-rosso degli ultimi tre anni e poi a una coalizione in cui ora convivono un euroentusiasta tardivo come Di Maio e un eurofobico pentito come Salvini, ai quali il premier deve comunque ricordare che l’euro è una scelta irreversibile, che “non c’è sovranità nella solitudine”, che la Russia ci preoccupa per le libertà civili violate e la Cina per le mire imperiali illimitate.
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