La pantera nera sembra proprio quella di Dante
di Paolo Di Stefano
Un ritratto di Dante del sedicesimo secolo
Ha qualcosa di stupefacente che nel 700° della morte di Dante salti fuori la caccia alla pantera. Una caccia vera, non metaforica: si tratta di una belva fuggita non si sa da dove che si aggira nelle campagne baresi. La «pantera errante» viene avvistata un po’ qua un po’ là da diversi giorni, tuttavia non è ancora stata catturata a dispetto della vasta mobilitazione anche militare. Cosa c’entra Dante con la pantera? C’entra, ma quella di cui parlò il poeta non era una belva in carne e ossa, era una bestia simbolica, di quegli animali a cui i «bestiari» medievali assegnavano un significato morale e religioso. Alla pantera (o a un animale simile che veniva chiamato in latino «panthera») si attribuiva una curiosa caratteristica. Non appena consumato il suo lauto pasto, la pantera sazia si rintanava, dormiva per tre giorni, al risveglio elevava al cielo un potente ruggito e spandeva ovunque il suo alito odoroso.
Un aroma pieno di tutte le spezie e così dolce da richiamare gli altri animali (tranne il dragone, si specificava). Tuttavia, nonostante quel diffuso profumo inebriante, la pantera era introvabile. Ancora più introvabile di quella pugliese. Nel suo trattato sulla lingua, il De vulgari eloquentia, che precedette la Commedia, Dante utilizzò l’immagine misteriosa della pantera introvabile identificandola con la parlata italiana più bella e più illustre: quella parlata che tra tutti i volgari d’Italia potesse dirsi perfetta. Immaginò così di mettersi a caccia della pantera, per boschi e per pascoli: ma pur passando in rassegna ben 14 «dialetti», dal friulano al siciliano, e sentendone il profumo qua e là, non riuscì a stanare la bestia.
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