Archive for the ‘Politica’ Category

Tra i 2 litiganti vince il terzo. Landini leader della sinistra

domenica, Giugno 25th, 2023

Laura Cesaretti

Che jella, povero Maurizio Landini: l’ex cuoco mercenario di Putin ha fatto partire il suo tentativo di golpe contro il dittatore russo proprio nel giorno della Grande Manifestazione della Cgil (stavolta il tema sono i taglia alla sanità) a Roma. Oscurando così, inevitabilmente, quella che il capo sindacale immaginava come una giornata di gloria, con sé medesimo – da pontefice massimo della sinistra – ad officiare il connubio di piazza tra partiti e partitini, leaderucci e leaderini, Schlein e Fratoianni e Conte, sotto il suo sguardo penetrante. E di certo non è un caso se stavolta Landini, sempre loquace nel tuonare davanti alle masse festanti la sua confusa quanto ultimativa analisi geopolitica (in sintesi: Putin non sarà proprio uno stinco di santo, ma l’Occidente che arma l’Ucraina permettendole di difendersi dall’invasore è infinitamente più perfido e guerrafondaio) ieri sul tema non ha aperto bocca. Non sapeva proprio che dire, come tutti i «pacifisti» anti-Kiev colti di sorpresa dal collasso totale del marcio sistema putiniano. Niente: Landini lancia spietati ultimatum al governo Meloni: «Siamo dalla parte giusta e non ci fermeremo». Questa giornata (in cui il mondo, in verità, guarda più a Prigozhin che a lui) «non è solo una testimonianza, ma l’inizio di una battaglia». Poi cerca di allargare il tiro, promettendo di tornare in piazza a settembre, dopo le sospirate ferie: «Lo diciamo con chiarezza: abbiamo sempre difeso la Costituzione sia con la destra di Berlusconi sia con il centro sinistra di Renzi e non permetteremo neanche a questo governo di poterla cambiare, per la democrazia ed il valore dell’antifascismo e della giustizia sociale». Mentre il capo Cgil annaspa per guadagnarsi almeno un titolo su giornali e tv, i segretari di partito accorsi al suo seguito in piazza se lo contendono: Conte (in incongrua camicia nera) gli salta al collo, ansioso di farsi benedire dal capo Cgil come potenziale carta vincente del centrosinistra: «La nostra presenza qui – asserisce – è testimonianza convinta di un percorso e di una battaglia politica che stiamo facendo da tempo». Quale, non è chiarissimo. Elly Schlein, forte di un legame preferenziale col capo sindacale (che del resto ha mandato le sue truppe di pensionati a votarla alle primarie) pure lo omaggia affettuosamente sotto il palco. Poi Elly corre anche ad abbracciare Conte, che tentava di dileguarsi dalla manifestazione senza farsi fotografare al suo fianco. Il boss della Cgil, però, ricorda ad entrambi che i voti non si contano ma si pesano, ed è lui (e non loro) ad avere il coltello dalla parte del manico: «Ci sono 12,5 milioni di persone che hanno votato questo Governo, ma ce ne sono 18 milioni che a votare non sono andati», mentre solo «15 milioni hanno votato altre forze politiche». E molti di quei non votanti, fa di conto, «sono nostri iscritti e nostri lavoratori». É lui insomma a rappresentarli, e non i due litiganti dell’opposizione parlamentare. I quali saranno pure alleati di necessità oggi in Molise, ma alle prossime europee dovranno contendersi ogni voto.

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Meloni congela il Mes e lo rinvia a settembre. Poi difende Santanché e sui migranti spera nel Consiglio europeo

domenica, Giugno 25th, 2023

Adalberto Signore

Dopo otto mesi esatti di navigazione tutto sommato tranquilla, Giorgia Meloni inizia a temere l’effetto-imbuto. Con un’estate che per il governo rischia di essere più calda del previsto se davvero dovessero incastrarsi nel modo peggiore alcuni dei principali dossier all’orizzonte. Due, ben noti, sono la questione migranti e il Mes. Sul primo fronte, Palazzo Chigi ripone grandi speranze in vista del Consiglio Ue in programma a Bruxelles giovedì e venerdì (che come quarto punto in agenda ha proprio il capitolo «migrazione»). Ma anche con la consapevolezza che a ieri – dato del Viminale – gli sbarchi in Italia sono più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (tra il 1 gennaio e il 23 giugno sono stati 59.767, contro i 25.795 del 2022) e che statisticamente i mesi di picco degli arrivi sono luglio, agosto e settembre. Sul secondo fronte, invece, Meloni deve gestire l’accelerazione imposta dalla lettera del Mef e dalla pdl in discussione alla Camera. Ma sopratutto il sotterraneo braccio di ferro con Bruxelles, dove i vertici dell’Ue – francesi e tedeschi in particolare – sono stanchi del continuo tergiversare italiano su un via libera che non può non arrivare. La riforma del Meccanismo europeo di stabilità è stata infatti ratificata da tutti i venti Paesi dell’eurozona tranne l’Italia (che sta paralizzando gli altri). Rinvii che sono dovuti a due ragioni. La prima è che Meloni è sempre stata contraria ed è naturale che per lei non sia facile cedere pubblicamente all’ineluttabile. La seconda è che Matteo Salvini – contrario anche lui – non vede l’ora di poter scaricare sulla premier l’inevitabile dietrofront. Tutte questioni che a Palazzo Berlaymont interessano meno che zero. E dove non gradiscono che il Mes sia usato come merce di scambio nella trattativa sulla riforma del Patto di stabilità. Non è un caso che ad oggi l’Italia non abbia ancora visto la terza rata del Pnrr, 19 miliardi che aspettiamo dal 30 aprile.

A queste due partite, però, da qualche giorno se ne è sovrapposta una terza, con la bufera che ha colpito la ministra del Turismo Daniela Santanché. Un fronte interno delicatissimo, perché dovesse arrivare un atto formale della magistratura la situazione diventerebbe di difficile gestione per un partito come Fdi, che sulla legalità ha sempre avuto un approccio di grande rigore. Un quadro complessivo, insomma, che rischia di farsi complicato. Non è un caso, forse, che la premier – ieri in Austria per l’Europa Forum Wachau – scelga di puntare il dito contro «alcune ricostruzioni un po’ surreali all’indomani della scomparsa di Silvio Berlusconi» che ipotizzavano scenari di «governi tecnici». Un messaggio che ha più destinatari e tra questi anche Salvini. E il cui senso è chiaro: dopo questo esecutivo c’è solo il ritorno alle urne. Un punto su cui Meloni ha la forza dei numeri in Parlamento, dove senza i voti di Fdi non c’è governo che tenga.

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E ora la sinistra si accanisce su Giorgetti per nascondere le trame M5s

sabato, Giugno 24th, 2023

Paolo Bracalini

Il problema dell’inchiesta sui «furbetti delle dogane» è che coinvolge sì un leghista, Gianluca Pini, ma ex, per giunta lontano da Salvini. L’altro protagonista, Marcello Minenna, è invece uomo vicino al M5s, con loro è stato assessore al Bilancio a Roma, nella disastrosa giunta Raggi. Ma il M5s è un bersaglio che non eccita, è all’opposizione, poi ultimamente è anche in rapporti amichevoli con la Schlein. Bisogna invece arrivare al governo, a qualche ministro. Ed ecco allora spuntare la preda di prima classe: Giancarlo Giorgetti, ministro del Tesoro. Un target eccellente da tenere sulle braci specie in questi giorni che è già sotto pressione per la questione Mes, una bomba non ancora disinnescata dentro la maggioranza e che ruota attorno al ministero dell’Economia. Giorgetti, neanche sfiorato dall’inchiesta, è stato subito tirato in mezzo grazie alle intercettazioni, sempre utili per colpire soggetti estranei alle carte giudiziarie. Il tramite è Pini, con cui Giorgetti era in stretto contatto dentro la Lega, tanto da esserne considerato un fedelissimo. «Mi manda Giorgetti. Gli affari sporchi di Pini all’ombra del Carroccio» titola Repubblica. Nelle carte ci sono normalissime telefonate (tra cui una di «231 secondi», neanche 4 minuti, tra Giorgetti e Minenna) e soprattutto conversazioni in cui Giorgetti viene citato da altri. Si parla di un invito alla presentazione di un Libro Blu dell’agenzia delle Dogane, alla quale Minenna teneva moltissimo partecipasse l’allora ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti. «Tempesta di telefonate Pini», il quale risponde «Gli parlo io!». E Giorgetti che fa? Non ci va neppure. Altra intercettazione, che fa titolo sul Fatto, quando Pini dice che la riconferma di Minenna alle Dogane è stato «piazzato da me e Giancarlo». Ma la nomina delle Dogane non dipende dallo Sviluppo Economico, allora retto da Giorgetti, il quale anzi quando è arrivato al Mef ha fatto saltare Minenna (al suo posto è stato nominato Roberto Alesse, attuale dg delle Dogane). Ma è lui, Giorgetti, che va mascariato (schizzato di fango), come dicono i siciliani. E quindi si ricorda che anni fa Giorgetti aveva una piccola quota in una minuscola società informatica, la Saints Group di Forlì, 25mila euro di capitale, in cui c’era anche Gianluca Pini. «Giorgetti non c’entra nulla con i miei affari con le mascherine, e con la Saints Group non ha più nulla a che fare da anni» ha detto lo stesso Pini, tempo fa, quando uscì la notizia sul Domani e su Report. Non solo la società non c’entra niente con l’inchiesta, ma Giorgetti ha ceduto le sue quote tre anni fa. Nei titoli del Domani di Carlo De Benedetti è comunque «l’ex socio di Pini» nei pezzi sull’inchiesta sulle mascherine, anzi è Pini che diventa «l’ex socio di Giorgetti». Il sito Tpi va oltre e ricicla anche un vecchio articolo del 2021, tirando in mezzo pure la figlia di Giorgetti. «Negli affari di Giorgetti con il fedelissimo ed ex socio Pini spunta la figlia 18enne del ministro leghista», il titolo. L’arcano è molto semplice: nel 2020 Giorgetti aveva ceduto le sue quote alla figlia, Marta. Valore nominale: 8.000 euro. Il valore di una Panda usata, forse. Quote che poi lei terrà nemmeno per un anno, fino all’aprile 2021. Ma anche questo basta per alimentare sospetti e collegare Giorgetti, famiglia inclusa, all’inchiesta che coinvolge Pini e il «civil servant» filo-grillino Minenna. «Non è un regalo un po’ strano, una società in perdita? Dopo appena otto mesi, Marta Giorgetti si libera di ogni partecipazione, cedendo tutto all’ex socio di papà. Cosa c’è dietro questa girandola di quote?».

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Corteo Cgil a Roma, la sinistra è aggrappata a Maurizio Landini

sabato, Giugno 24th, 2023

Claudio Querques

Il primo indizio furono le magliette della Fiom indossate da Elly a Bologna come una seconda pelle. Il sospetto che la furia creativa mostrata durante le primarie dalla neo-segretaria stesse confluendo nel solito vecchio filone sindacale. Una coazione a ripetere uno scenario ormai primitivo: la segretaria militante, schierata da una parte sola. Con una variante: anziché il sindacato cinghia di trasmissione del partito, il partito cinghia di trasmissione del sindacato.

È l’accusa più frequente che viene mossa alla Schlein dai suoi stessi compagni di partito, in particolare dalla cosiddetta area riformista. Anche nell’ultima direzione nazionale. Un Pd subalterno, movimentista e codino che avrebbe in Maurizio Landini il suo vero punto di riferimento. Il Nazareno e la Cgil nella stessa bolla. Un sindacato matrioska con dentro il partito. Sarà un caso ma ancora una volta la Schlein ha scelto la piazza. Due settimane fa la sfilata del Roma pride, oggi la manifestazione con il sindacato di Corso Italia e una rete di associazioni laiche contro i tagli alla sanità e la precarietà. Il tempo di salire sul palco e già si pensa ad un altro corteo «per un fisco più equo».

Che nel partito Democratico vi siano posizioni anche molto diverse da quelle di Landini è un dato di fatto. Basti pensare alla guerra in Ucraina, al termovalorizzatore romano o ad altri temi etici che esulerebbero dalla sfera per così dire strettamente sindacale. Per la Schlein, assorbita dall’onda di risacca, poco importa. Gli iscritti al Pd avevano scelto Stefano Bonaccini anche per questo. Ma lei non si rivolge a loro, si rivolge alle 90 associazioni che hanno aderito alla manifestazione di oggi. Un corpo estraneo, una leader tesserata per necessità, per potersi candidare come chiede lo statuto. La certificazione che il Pd almeno come era stato pensato dai fondatori, il partito a vocazione maggioritaria che doveva tenere insieme le varie anime del centrosinistra e del sindacato, è un progetto ormai fallito.

Se si dovesse sintetizzare tutto questo in una vignetta penseremmo ad una grande calamita che attira Elly allontanando – fatalmente – sia lei che la Cgil dalle altre due sigle. Una calamita che attira tutto quello che si muove a sinistra. Perché anche Giuseppe Conte e i Cinque Stelle oggi saranno alla manifestazione del sindacato «rosso». Insomma un Landini che diventa sempre più un «faro», che detta tempi e modi del contrasto al centrodestra. Senza neppure fare troppa fatica visto che a ogni protesta della Cgil a sinistra si accodano sempre.

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Daniela Santanchè, i timori di Palazzo Chigi. La ministra: se lo chiedono pronta a spiegare in Aula

sabato, Giugno 24th, 2023

di Monica Guerzoni

Nevi (FI): «Un suo passo indietro con un rinvio a giudizio? Deciderà lei»

 Daniela Santanchè, i timori di Palazzo Chigi. La ministra: se lo chiedono pronta a spiegare in Aula

Alle undici di sera, da Capri, Daniela Santanchè risponde agli attacchi: «Se verrà formalizzata la richiesta al Senato, non avrò nessun problema a riferire in Parlamento. Ma voglio che sia chiaro, lo faccio per gli italiani e non perché me lo chiedono le opposizioni, il cui comportamento punta a mettere in difficoltà il governo».

Le parole della ministra del Turismo arrivano al Corriere dopo una giornata di imbarazzo a Palazzo Chigi e nei gruppi della maggioranza, dove la paura che una mossa delle procure possa far ballare l’esecutivo. Perché adesso, oltre alle opposizioni che invocano le dimissioni di Daniela Santanchè , il muro del centrodestra a difesa della ministra del Turismo comincia a scricchiolare. Dalla Lega e da Forza Italia si alzano le prime voci dissonanti che spronano la senatrice a chiarire. Lei assicura che «sono tutte balle», insiste nel dire che il programma di Sigfrido Ranucci volesse solo screditarla e conferma di aver presentato più di una querela. Ma a Palazzo Chigi aumenta la preoccupazione per un caso che esplode in giorni di forte tensione tra e dentro i partiti della maggioranza.

La Lega, innanzitutto. Impossibile non notare come il capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, nel difendere l’esponente del governo perché «i processi non si fanno in televisione», esprima un concetto che non si allontana troppo dagli argomenti del Pd e del M5S. E cioè che al momento opportuno la ministra del Turismo «verrà in Parlamento a spiegare le sue ragioni».

Nelle stanze della presidenza del Consiglio l’inchiesta della trasmissione Rai viene valutata con estrema serietà. A sentire i parlamentari meloniani la premier sta vivendo la polemica con disagio e timore per l’immagine del governo. Certo non basta la soddisfazione con cui Santanchè fa sapere ai colleghi di governo che «in Tribunale finora ho sempre vinto». Meloni tiene moltissimo al Turismo ed è a dir poco seccata per la tempesta che ha investito la ministra. Eppure è determinata a sostenerla, come ha fatto per il duo Delmastro&Donzelli. Ma se Santanchè fosse rinviata a giudizio, è evidente che la premier le chiederebbe di lasciare.

Un meloniano di alto rango prova a interpretare l’umore di Meloni: «Se è preoccupata? Direi che c’è precauzione, anche perché non abbiamo capito ancora se Daniela è indagata». Dubbi e paure che la responsabile del Turismo spera di spazzar via ostentando serenità in attesa che l’onda si abbassi. Certo non pensa di lasciare e non risulta che la premier glielo abbia ancora chiesto durante il confronto in cui la ministra le assicurava che no, lei in questa storia non c’entra nulla. «Non ho un avviso di garanzia, né un processo — è la formula con cui Santanchè, che ha avuto come legale delle aziende Ignazio La Russa, va tranquillizzando i colleghi — La causa poi è civile, non penale». I vari Conte, Schlein, Calenda, Bonelli e Fratoianni che invocano il passo indietro non sembrano spaventarla troppo, stando alla battuta che ha consegnato ai suoi: «Vabbè, sono l’undicesimo ministro di cui chiedono le dimissioni!». Sa bene, Santanchè, che una mozione di sfiducia contro di lei non passerebbe e che il solo risultato sarebbe quello di ricompattare la maggioranza. Sicura, ha confermato gli appuntamenti in agenda: ieri è andata a Capri con i giovani imprenditori e si è mostrata «tranquilla» e oggi sarà a Ischia per l’evento dei conservatori europei.

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Meloni-Rottenmeier, la ratifica del Mes ormai «ineluttabile», le liti da tamponare: sale la tensione nella maggioranza

sabato, Giugno 24th, 2023

di Francesco Verderami

La questione più spinosa nella maggioranza di governo è la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità. E la premier è ora costretta a dedicarsi alle emergenze interne

 Meloni-Rottenmeier, la ratifica del Mes ormai «ineluttabile», le liti da tamponare: sale la tensione nella maggioranza

La questione più spinosa nella maggioranza è la ratifica del Mes, il meccanismo europeo di stabilità, ovvero il fondo salva Stati incaricato di sostenere con prestiti i Paesi dell’Ue in difficoltà finanziaria. L’Italia è l’ultimo Paese a non averlo ancora approvato, anche se votarlo non equivale ad aderire ai prestiti del Fondo. Già in commissione Esteri sono venute alla luce difficoltà nella maggioranza di governo. Meloni vi si è sempre opposta, ora è pronta a trattare, in cambio di una maggiore flessibilità sul debito. È il leader della Lega Matteo Salvini a essere contrario. E anche quello di Forza Italia Antonio Tajani solleva dubbi. In teoria la ratifica dovrebbe essere discussa a partire dal 30 giugno. Ma sulla questione pesano la tenuta della maggioranza in Aula ed eventuali tensioni con l’Ue.


Finora era sempre riuscita a governare le tensioni e i passaggi più delicati nell’alleanza, «manco fossi la signorina Rottenmeier», sospirava ogni volta Meloni. Dall’altro giorno qualcosa sembra essere cambiato per la premier, in coincidenza con la scomparsa di Berlusconi e a causa di una serie di eventi che stanno facendo sussultare il centrodestra. Così Meloni, che si sentiva obbligata a interpretare il ruolo di «Rottenmeier» — un personaggio del cartone animato Heidi ossessionato dalla precisione — pare costretta a tamponare le emergenze più che impegnata a dettare l’agenda.

C’è stato da gestire l’avvio polemico delle riforme sulla giustizia, sebbene abbia incoraggiato il Guardasigilli Nordio ad andare avanti con un «daje Carlo» pronunciato in Consiglio dei ministri. C’è da valutare lo spinoso «caso Santanchè», che rischia di tramutarsi in un grave problema per il governo, incalzato dalle opposizioni e non coperto da quei pezzi di Lega e Forza Italia che fin dall’inizio della legislatura hanno fatto il controcanto alla premier. C’è da chiudere la trattativa sul Pnrr e da ottenere la sospirata terza rata. C’è da sciogliere il nodo della nomina commissariale per le aree alluvionate della Romagna.

E poi c’è il Mes. La sua ratifica è «ineluttabile», ne sono consapevoli i rappresentanti dell’esecutivo. Ma il passaggio è reso impegnativo perché sovraccaricato dall’atteggiamento di Salvini, che vuole politicamente scaricare su Meloni l’intera responsabilità della scelta: che sia la premier a onorare la cambiale, intaccando la sua «coerenza» sul Meccanismo europeo di stabilità che negli anni di opposizione ha sempre osteggiato. Lo fa capire il capogruppo leghista Romeo, quando rammenta che «noi siamo storicamente contrari. Noi e FdI, credo… Ma se Meloni dirà che serve votarlo, non metteremo certo in difficoltà il governo». Paghi «Giorgia», insomma. Malgrado non tutti concordino con il segretario. Se Giorgetti si riconosce nella linea favorevole al Mes dettata dal suo dicastero, è anche perché non ne può più delle pressioni europee. «Durante le riunioni a Bruxelles — racconta un diplomatico italiano — alcuni lo hanno inseguito persino nei bagni». E ieri il governatore Fedriga si è schierato al suo fianco: «Ratificare il Mes non vuol dire utilizzarlo».

Ma è chiaro che nella Lega decide Salvini, impegnato a farsi valere sulle nomine e sulle scelte politiche per uscire dal cono d’ombra di Meloni, deciso com’è a contare oggi negli assetti di potere per contarsi domani nelle urne. Così il percorso «ineluttabile» è diventato più tortuoso, con quel passaggio alla Camera per nulla ortodosso: non era mai accaduto che una maggioranza disertasse il voto in commissione per evitare di assumere una posizione. Per FdI la figuraccia nel Palazzo era l’unico modo per non fare una figuraccia in Europa e magari sui mercati: si prende tempo confidando che Meloni torni a fare la «signorina Rottenmeier».

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Revoca a vita della patente e stretta sui monopattini: il nuovo Codice della strada

giovedì, Giugno 22nd, 2023

Luca Sablone

Un vero e proprio pugno duro contro chi alla guida si rende protagonista di azioni che mettono a repentaglio la sicurezza stradale. Va in questa direzione il nuovo Codice della strada che il governo si appresta a mettere nero su bianco. La linea rigida tocca molti fronti, dalla revoca a vita della patente alla stretta sui monopattini passando per nuove regole per i neopatentati e maggiore intransigenza per gli illeciti commessi quando si è alla guida di un’autovettura.

Sono diverse le novità previste nel disegno di legge a cui sta lavorando Matteo Salvini in vista del Consiglio dei ministri di domani. “Abbiamo messo l’educazione stradale, la prevenzione, i controlli e poi sanzione pensante per chi sbaglia, arrivando alla revoca a vita della patente per i recidivi che uccidono guidando drogati o ubriachi”, ha dichiarato il ministro delle Infrastrutture. Nei 18 articoli della bozza hanno trovato spazio anche le modifiche in materia di sicurezza dei passaggi a livello ferroviari e ulteriori sanzioni per la sosta vietata e le Zone a traffico limitato (Ztl). Ecco tutte le ipotesi sul tavolo.

Sospensione e revoca della patente

Il testo spiega che di fronte a una super multa per eccesso di velocità – o comunque per altre infrazioni che comportano la decurtazione dei punti – la patente viene sospesa se si hanno già meno di 20 punti. Gli illeciti a cui si fa riferimento riguardano il mancato rispetto del senso vietato, del divieto di sorpasso e il superamento di oltre 10 km/h e di non oltre 40 km/h i limiti massimi di velocità.

La sospensione della patente va da 7 a 15 giorni a seconda del numero di punti posseduti al momento dell’accertamento. Ad esempio nel mirino finirà chi è sorpreso alla guida con il cellulare o viene fermato dopo aver assunto droghe. Il tutto senza ovviamente escludere tutti quei comportamenti che generano statisticamente alta incidentalità. I giorni di sospensione raddoppiano in caso si sia causato un incidente. Non è finita qui: la tolleranza zero per le infrazioni introduce anche la possibilità di revoca definitiva del documento di guida per i casi più gravi.

I limiti per i neopatentati

La bozza prevede un importante cambio di passo rispetto alle regole attualmente in vigore. Si va verso l’esordio di altri limiti per i neopatentati, che non potranno guidare le auto più potenti per i primi tre anni (e non più uno) dopo il conseguimento della patente. In sostanza viene fissato a tre anni l’arco temporale dopo cui poter guidare autovetture (categoria M1) a motore termico, potenza specifica, riferita alla tara, superiore a 55 kW/t e/o comunque potenza massima pari o superiore a 70 kW.

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Il Tar dice basta ai blitz delle Ong. “È il Viminale a stabilire il porto di sbarco”

giovedì, Giugno 22nd, 2023

Gian Micalessin

Speravano in un giudice amico pronto a legittimare il dogma secondo cui il porto di sbarco dei migranti deve essere il più vicino alla nave Ong che li soccorre in mare. Ma gli è andata male. A differenza di Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, scagionata e rimandata a casa dopo aver speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, Msf (Medici Senza Frontiere) stavolta fa i conti con una sentenza del Tar del Lazio che dà piena ragione al nostro Ministero dell’Interno e liquida come prive di valore giuridico le sue ragioni.

Al centro del dibattimento, chiuso con sentenza lunedì scorso, c’erano due ricorsi sporti contro il nostro Ministero dell’Interno accusato di aver illegittimamente assegnato alla nave Geo Barents affittata da Msf, il 7 gennaio e il 23 gennaio scorsi, i porti di sbarco di Ancona e La Spezia. Due destinazioni che, a detta dei legali di Msf non potevano, stando alle norme internazionali, venir decisi dal Viminale. Ma soprattutto non potevano venir assegnati in quanto lontani dalla zona di soccorso e inficiati dal sospetto di venir scelti per scaricare l’assistenza ai migranti su due città in mano all’opposizione.

Ma il Tar del Lazio ha fatto «tabula rasa» di argomentazioni e sospetti condannando la Ong al pagamento delle spese di giudizio. Partiamo dall’ accusa secondo cui – in base alla Convenzione di Amburgo sui soccorsi in mare – la scelta del porto di sbarco sicuro (Pos – Place of Safety) non spetterebbe al Ministero dell’Interno, ma a quello delle Infrastrutture e alle Capitanerie di Porto. Una tesi definita inconsistente per due ragioni. La prima è che solo il Viminale è in grado di valutare il Pos più adeguato in base al totale degli interventi di soccorso e al numero di migranti da soccorrere. La seconda è che solo il Ministero dell’Interno può disporre i più appropriati servizi di assistenza sanitaria e di sicurezza.

Ma la batosta più significativa riguarda uno dei dogmi impostici dalle Ong ovvero il concetto che il porto di sbarco debba inevitabilmente essere il più vicino alla nave responsabile del salvataggio. Una tesi fatta a pezzi dalla sentenza che citando la normativa internazionale sottolinea come la nozione di Pos non coincida necessariamente con quella di porto più vicino alla zona di soccorso. Tanto che – a detta del Tar – il Pos può non trovarsi necessariamente sulla terraferma e venir rappresentato, in via temporanea, da una nave o da una struttura galleggiante adatta a soccorrere i naufraghi. Come dire che la Geo Barents – un bestione di 77 metri capace di operare in ogni condizioni meteo – rappresentava già un «luogo sicuro».

Secondo i giudici del Tar, inoltre, le norme internazionali non evocano un concetto di «vicinanza» fra luogo di soccorso e luogo di sbarco, ma un concetto di ragionevolezza. Il «Pos» va scelto, insomma, tenendo conto della situazione concreta dei migranti, degli aspetti logistici relativi alla gestione dei flussi migratori, alla necessità di non congestionare determinati territori e di assicurare accoglienza, identificazione oltre ad eventuali espulsioni e rimpatri.

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L’ex segretario dem Pier Luigi Bersani: “Il Pd non può fare l’alternativa da solo. Schlein generosa. Ora tocca a Conte”

giovedì, Giugno 22nd, 2023

«Elly deve trovare un metodo, ma non è una trapezista sul filo. Il governo avrà una navigazione tribolata, i soccorsi però non mancheranno»

Annalisa Cuzzocrea

L’appuntamento con Pier Luigi Bersani è al tavolino di un bar del centro, a Roma. È in partenza per il Molise, tre comizi in un giorno per la campagna elettorale delle Regionali, solo l’inizio dell’“estate militante” evocata da Elly Schlein nel suo discorso alla direzione Pd. La prima, dopo il ritorno a casa di Articolo 1. «Dai, che facciamo tutti un passo avanti», dice l’ex segretario dem davanti a un caffè macchiato: «L’ultima settimana ha messo in moto delle cose che possono chiarire il percorso».

Il governo si è contraddetto con un documento ufficiale sul Mes. Poi è andato sotto in commissione Bilancio al Senato. Segnali di sgretolamento?
«Avranno una navigazione tribolata, ma all’occorrenza non gli mancheranno i soccorsi. Il tema però non sono gli spaghetti di Lotito. Stiamo al merito e spieghiamo bene che arretramenti contiene quel decreto».

Quali?
«Tornano i voucher, si facilitano ancora i contratti atipici. In generale, lavoro più povero e più precario».

Contro la precarietà Schlein è andata in piazza con i 5 stelle, peccato ci fossero Moni Ovadia, il no alle armi all’Ucraina, e siano partite le critiche interne.
«Bisogna dire basta a due cose: alla descrizione di Elly Schlein come una trapezista che cammina sul filo, totalmente fuori dalla realtà. E a queste rappresentazioni stucchevoli del solco tra moderati e radicali del Pd. Propongo di andare al dunque».

Andiamoci.
«È troppo di sinistra dire che è una vergogna avere contratti a 3 euro e mezzo mentre la Germania li ha a 13 euro? O che siamo in testa alla classifica dell’Ocse per la precarietà? Che vogliamo un fisco progressivo e non per categorie? E che si sta andando verso la privatizzazione della Sanità?».

Senza agire sulle norme.
«Non ce n’è bisogno, basta affamarla. È troppo di sinistra sostenere che l’autonomia differenziata è la distruzione dello Stato, pronunciare parole come crisi climatica o cessate il fuoco mentre difendiamo l’Ucraina? Dire che un bambino è un bambino e va accolto, registrato, senza se e senza ma? Se lo è, ci riposiamo, andiamo al mare. Perché è questo il crinale che ci separa dalla destra destra. Siccome il Pd su ciascuna di queste cose ha delle proposte, si fa una piattaforma, la si discute con le altre forze di opposizione e la si finisce con questa rappresentazione riformisti/sinistra, radicale/moderati».

Ma chi la fa questa rappresentazione? Non arriva anche da dentro il partito?
«Certo. E io sento un po’ di disagio quando la parola riformista viene usata in alternativa o in contrapposizione alla parola sinistra. Turati o Andrea Costa rimarrebbero piuttosto sbalorditi. Ma siccome quelle cose che elencavo sono patrimonio di tutti, allora smettiamola di andar per funghi, che ci portan via la casa».

In direzione in molti hanno evocato un problema di metodo: servono più decisioni condivise, meno blitz comunicativi?
«Non c’è dubbio e l’ho sempre consigliato a Elly: hai fatto 30, fai 31, tieni aperto ancora perché c’è un sacco di gente che vorrebbe sentirsi dire credibilmente, e sottolineo credibilmente, “vieni, qui che c’è un nuovo Pd”. Ma ci sono ancora tante barriere. Secondo: metti un appuntamento politico di discussione, di chiarimento, perché il meccanismo delle primarie non lo ha mai consentito. Questa direzione ha dimostrato che è importante discutere. Naturalmente è anche faticoso, ci vuol pazienza. Ma credo che la segretaria abbia capito e non si lascerà sfuggire questo tema di metodo. Anche se i temi di metodo nascondono anche dei pezzi di merito».

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Il pressing della Lega costringe Meloni a mediare

giovedì, Giugno 22nd, 2023

ILARIO LOMBARDO

ROMA. Ieri poteva finire come tutti i populisti e i sovranisti italiani sognavano da tempo, compresa Giorgia Meloni. Con la riforma del Mes affossata in Parlamento e l’addio alla ratifica. D’altronde era l’epilogo che la presidente del Consiglio ha sempre auspicato, da quando era all’opposizione. Sarebbe bastato votare come aveva chiesto la Lega, alla Camera, in commissione Esteri, contro la proposta delle opposizioni, Terzo Polo e Pd, che chiede l’immediato via libera al nuovo trattato sul Meccanismo europeo di stabilità.

Con il centrodestra compatto il testo non sarebbe passato. Fratelli d’Italia invece ha preso ancora tempo e ha sfruttato la sponda che gli ha offerto il renziano Ettore Rosato per raffreddare le pulsioni anti-Mes degli alleati. Ha preso 24 ore in più, per trattare. Da una parte con la Lega, e lo sta facendo il capogruppo Tommaso Foti con il leghista Riccardo Molinari, con l’obiettivo di trovare un’exit strategy. Magari oggi, di fronte al voto richiesto e congelato da ieri, FdI uscirà, si asterrà, con la scusa di non voler bocciare un testo delle opposizioni. Dall’altra, i meloniani provano a negoziare con Pd, Terzo Polo e M5S un nuovo rinvio, per evitare la data del 30 giugno, quando la proposta di ratifica del Mes andrà in Aula.

Il Parlamento non porta buone notizie per Meloni. Le assenze di Forza Italia che hanno fatto andare sotto il governo sul decreto Lavoro in Senato sono un segnale preoccupante sulla tenuta del partito rimasto orfano del suo fondatore, Silvio Berlusconi. Ma ancora di più a Palazzo Chigi sono in ansia su come gestire quello che è accaduto a Montecitorio, dopo la lettera contenente il parere tecnico del ministero dell’Economia che certifica l’utilità del Mes. Esattamente il contrario di quello che sostengono Meloni e Matteo Salvini.

Stando a fonti di FdI, la premier sarebbe stata messa al corrente di quali potrebbero essere le conseguenze in Europa e sui mercati se decidesse di bocciare il Mes, tanto più in un giorno in cui il Tesoro scrive che tenere in vita questo strumento di soccorso finanziario avrebbe effetti benefici sullo spread. E poi il governo è ancora alle prese con le trattative su Pnrr, Patto di Stabilità e migranti. La strategia di Meloni prevede di rinviare il più possibile l’ok italiano e usare questo come arma negoziale per gli altri tavoli aperti a Bruxelles. Le sorprese di ieri e la foga leghista hanno messo a dura prova le mosse della leader di FdI, spaventata dalla prospettiva di lasciare da sola la Lega a difendere una battaglia storica della destra. Meloni sta facendo i conti con la realtà del governo. Con la contraddizione lampante che emerge con chiunque abbia a che fare con il fondo salva-Stati non più dall’opposizione (fu così anche per il M5S).

Meloni continua a dire di non aver cambiato idea, «fosse per me – sostiene – il Mes mai». E allora perché non osare? Nelle interlocuzioni tra Parlamento e Palazzo Chigi si svelano le ragioni di questa frenata, proprio mentre veniva resa nota la lettera sul Mes che porta la firma del capo di gabinetto di Giancarlo Giorgetti. Quando va all’estero, e i colleghi lo avvicinano durante i vertici, il ministro dell’Economia italiano deve soffocare tutta la sua nota schiettezza per nascondere la verità che chiunque sieda al governo conosce: il Mes andrà approvato. Si tratta solo di capire come costruire un percorso che possa minimizzare la giravolta di Meloni e del centrodestra.

La premier ha lasciato qualche traccia nelle risposte date in questi mesi, quando ha più volte ha detto di voler rimettere la decisione al Parlamento. Un’occasione poteva essere proprio il parere del Mef. E qui c’è una storia nella storia. Già a gennaio questo giornale aveva scritto che al Tesoro era in lavorazione un documento, concordato con Palazzo Chigi, che di fatto avrebbe segnato una svolta e portato al via libera del fondo salva-Stati. Per settimane non se n’è saputo più nulla, finché FdI, con l’obiettivo di dilatare ancora i tempi, ha chiesto un’opinione tecnica a via XX Settembre. La lettera è datata 9 giugno. Offre una via d’uscita, perché in teoria smonta gli argomenti di chi (Meloni in testa) pensa che gli effetti siano più negativi che positivi. Su questa base, fare in modo che il Mes passi addossando la responsabilità alle opposizioni, è uno scenario che la premier non disdegnerebbe. È già pronta la scusa: «Lo ha votato il Parlamento. E il Parlamento è sovrano». Ma Meloni non aveva ben calcolato le reazioni della Lega.

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