di Marco Imarisio, inviato a Bologna
Chissà domani, su che cosa metteremo le mani. In via D’Azeglio le luminarie con i versi di una delle canzoni più belle di Lucio Dalla sono sempre accese. Con la fatica che si fa ad immaginare un futuro qualunque e con il bisogno di consolazione che tutti ci portiamo addosso, anche solo guardarle è qualcosa che un po’ scalda il cuore. Alle 17 di un mercoledì di marzo ci passano sotto in tanti. E ci si sente quasi in colpa a pensare che forse sono troppi, per una città in zona rossa da una settimana, che pure fatica a contenere contagi al settanta per cento attribuibili alla variante inglese, una città assediata che si trova nel centro della regione più colpita da questa terza fase del virus, dove il direttore generale della Ausl Paolo Bordon chiede aiuto dicendo che i posti letto non bastano più, e per destinarne di nuovi al Covid servono anche nuovi medici, anestesisti e infermieri. Non importa come, non importa da dove. Perché le altre ondate, dice, «erano niente in confronto a questa».
Piazza Maggiore
Eppure,
è così. Sarebbe facile, incrociare situazioni in distonia tra loro. Da
una parte le giovani universitarie sedute sui gradini di piazza Maggiore
che chiacchierano tra loro con il drink in mano. Dall’altra le notizie
dei ricoveri sospesi in tutti gli ospedali cittadini, e il punto nascita
di Bentivoglio convertito alla lotta contro il male, e bollettini
affatto tranquillizzanti, una media di contagi che dal primo al 7 marzo è
stata di 538 su centomila abitanti, con Rt schizzato anche sopra quota 1,30.
Sono dati da prima ondata. Anche se ogni paragone con il passato
recente appare improponibile. Nel giro di un anno è cambiato tutto, la
nostra testa, il modo di intendere serrate più o meno dichiarate, la
percezione collettiva del male, il suo modo di colpire. Bologna non è un
caso atipico. È solo che tutto è diventato più difficile, anche
resistere in una città dotta per antica definizione e civile per pratica
quotidiana. «Non c’è alcun rilassamento rispetto alle misure che
abbiamo preso, ma è vero che c’è uno sfinimento collettivo». Ogni sera
Giuliano Barigazzi esce dal suo ufficio di Palazzo d’Accursio, dove
lavora come assessore alla Sanità, e si fa un giro nel centro, lungo le
zone dell’aperitivo e dei potenziali assembramenti. «Piuttosto, è vero
che questo andare e venire di colori sta sfibrando le persone. La gente
non ne può più, è allo stremo delle forze. Una chiusura totale come
avvenne la scorsa primavera non sarebbe immaginabile oggi. Non solo per
le eventuali conseguenze economiche, ma per quelle sociali. Crollerebbe
tutto». Durante il febbraio appena trascorso c’era il sole e il sistema a
semaforo segnava giallo. «Stiamo pagando le conseguenze di quei giorni
di semilibertà?» si chiede Barigazzi. «Può essere. Ma non biasimo
nessuno, né qui né a Roma, intesa come governo. Ormai bisogna tenere
conto di come siamo diventati, della natura umana. L’assenza di una
strada chiara per uscire da questo incubo ci sta spegnendo dentro».