Archive for the ‘Cultura’ Category

Questa nostra Costituzione, strumento di progresso e trasformazione

martedì, Aprile 25th, 2023

Donatella Stasio

All’inizio del 1956 Piero Calamandrei comincia a collaborare come editorialista con La Stampa e nel mese di settembre, prima della sua morte improvvisa, anticipa al quotidiano l’invio di un pezzo intitolato Questa nostra Repubblica, che purtroppo, non riuscirà a concludere. Nel 1995, quel titolo diventa Questa nostra Costituzione per mano di Alessandro Galante Garrone, che con l’editore Bompiani ripubblica un famoso saggio di Calamandrei sulle origini antifasciste della Costituzione e sulle ragioni, politiche e storiche, che ne hanno ritardato l’attuazione. Questa nostra Costituzione è un titolo «tipicamente calamandreiano», spiegava Galante Garrone, nel quale «sembra di sentir vibrare il sentimento di nostalgico affetto e insieme di pugnace volontà di difesa della Costituzione contro certe animosità o grossolane dimenticanze». In questo senso è un titolo di grande attualità e lo vogliamo rilanciare oggi perché ci parla di un senso di appartenenza a una comunità di valori – rispetto della persona, dignità, solidarietà, non discriminazione, pluralismo – che nell’antifascismo affonda le sue radici – storiche, ideali, culturali -, che di quei valori si nutre ma che, per difenderli e vivificarli, ha bisogno di memoria, di impegno, di cura.

Il patto che ci lega

Massimo Giannini 24 Aprile 2023

Avvocato, liberale e poi fondatore del Partito d’azione, padre costituente, Calamandrei ha sempre messo al centro del suo impegno politico la difesa della Costituzione e dell’eredità della Resistenza, che tra il 1948 e il 1955 vedeva minacciate da un processo di involuzione, rappresentato dalla mancata attuazione del dettato costituzionale e dal permanere della legislazione fascista, che imputava alla maggioranza politica dell’epoca, arrivando a dire che «di fronte alla Costituzione, i conservatori sono i veri sovversivi». Non c’è bisogno di scomodare simbologie fasciste per cogliere dietro il dilagante «disfattismo costituzionale e il processo alla Resistenza» – due facce della stessa medaglia poiché «la Costituzione è lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche» – una caduta della coscienza civile, l’insensibilità democratica della classe dirigente e il desiderio di ritorno all’autoritarismo fascista.

Parole che ancora una volta ci riportano all’oggi, alla cultura della destra «conservatrice» impegnata a minimizzare, negare, cancellare dalla coscienza civile momenti, valori, parole fondanti di «questa nostra Costituzione».

L’antifascismo non è un residuato bellico, sepolto insieme al fascismo, suo antagonista storico. «Il 25 aprile – spiegava Pietro Scoppola – è un punto di arrivo, come conclusione della guerra civile e liberazione del paese, ma è anche un punto di partenza per la ricostruzione democratica. In questo senso, l’antifascismo rimane come fondamento irrinunciabile della nostra Costituzione». Lo vediamo declinato nell’affermazione dei valori della persona umana, della libertà e della solidarietà, valori che il fascismo aveva negato e calpestato. La Resistenza, ricordava Calamandrei, è stata «la riscoperta della dignità dell’uomo come persona e la sua rivendicazione ne rappresentava il momento più alto: rivendicazione della libertà dell’uomo, persona e non cosa».

«Persona umana», come ha detto, di recente, il presidente della Repubblica nel suo discorso ad Auschwitz sulle corresponsabilità del fascismo negli orrori del nazismo e sul dovere della memoria, perché «odio, pregiudizio, razzismo, estremismo, antisemitismo, indifferenza, delirio, volontà di potere sono in agguato, sfidando in permanenza la coscienza delle persone e dei popoli».

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La Resistenza della Memoria

martedì, Aprile 25th, 2023

Federico Capurso, Francesco Olivo

L’Italia celebra oggi la Liberazione dal nazifascismo. Ed è il ricordo di quei giorni, la memoria, a essere il perno intorno a cui si preserva il valore del 25 aprile. Lo sottolinea il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, incontrando al Quirinale una rappresentanza delle Associazioni combattentistiche e d’arma, di cui ne loda «l’impegno e la determinazione per tener viva la memoria di un periodo tra i più drammatici della nostra storia». Un lavoro con cui, sottolinea ancora, contribuiscono «in ampia misura a far conoscere e non dimenticare quanti hanno lottato per la difesa degli ideali di indipendenza e di libertà che permisero la liberazione dell’Italia dall’oppressione nazi-fascista». Per questo, per il suo nono anno da Presidente della Repubblica, dopo le consuete celebrazioni all’Altare della patria, a Roma, Mattarella volerà in Piemonte, prima a Cuneo, poi a Borgo San Dalmazzo e a Boves, luoghi simbolo della Resistenza e della Liberazione. Luoghi della memoria.

Giorgia Meloni, invece, in agenda ha solo un appuntamento: la cerimonia all’Altare della Patria di piazza Venezia a Roma, alle 9, accanto a Mattarella e ai due presidenti delle Camere, Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana. Palazzo Chigi nega che ci siano altri eventi che la presidente seguirà nella giornata, ma da tempo si rincorrono voci su una visita a sorpresa, magari in un luogo simbolico. Quello che appare certo è che la premier vorrà lasciare scritte le sue considerazioni e una delle forme può essere inviare una lettera a un giornale, nell’auspicio di chiudere le molte polemiche sulle ambiguità della destra con il passato fascista. Si tratta, è ovvio, di un tema delicato, dove è fondamentale evitare passi falsi, il rischio infatti è riaprire un dibattito anziché chiuderlo, come successo con il ricordo dei martiri delle Fosse Ardeatine, «trucidati perché italiani» e non perché «antifascisti». Da Palazzo Chigi si spiega che la grammatica istituzionale vuole che sia il presidente della Repubblica a prendersi la scena in un giorno così, ma ciò non vuol dire che Meloni debba limitarsi a un omaggio formale, per giunta di primo mattino, per poi eclissarsi. Così, un’altra delle opzioni di cui si torna a vociferare in questi giorni è quella di un gesto a sorpresa, come la rinuncia, nel simbolo di Fratelli d’Italia, alla fiamma che fu del Movimento sociale, anche se dal partito si affrettano a smentire questa possibilità.

Non ha altri appuntamenti in agenda per la Liberazione neppure il presidente del Senato La Russa, che subito dopo la deposizione della corona all’Altare della Patria, volerà a Praga per intervenire alla Conferenza dei presidenti dei Parlamenti Ue, per poi partecipare alle commemorazioni di Jan Palach, martire della lotta contro l’occupazione comunista. Una scelta che, per le opposizioni, ha il sapore della provocazione e riaccende le polemiche. D’altronde, è il primo 25 aprile con un governo di destra. La tensione politica pare ancora in grado di ravvivare antiche contrapposizioni e il dichiarato obiettivo di Fratelli d’Italia di superare le divisioni e arrivare a una pacificazione, resta lontano. Complice, forse, anche la timidezza mostrata fin qui dagli uomini di Meloni nel tagliare certe radici.

Lega e Forza Italia mostrano invece un piglio deciso, utile a mettere in difficoltà l’alleata, se possibile. Silvio Berlusconi torna a parlare, a tre settimane dal ricovero, e lo fa con una nota in cui rievoca la Resistenza, «una straordinaria pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, baluardo delle nostre libertà e dei nostri diritti». La memoria, dunque, richiamata da Mattarella, a cui il presidente di Forza Italia affianca una riflessione «sul presente e sull’avvenire», affinché la Liberazione sia anche un’occasione utile a «superare ogni divisione e ogni contrasto, per conseguire il bene dell’Italia e degli italiani».

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Sergio Mattarella: «Per un Rinascimento europeo partiamo dalla cultura»

venerdì, Aprile 21st, 2023

di Marzio Breda

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«Leggere è condividere conoscenza e valori: così il continente rinsalda la sua unità e si apre al mondo». Il capo dello Stato, all’avvio del Festival du Livre di Parigi dove l’Italia è ospite d’onore, riflette su letteratura, diritti, convivenza

Sergio Mattarella: «Per un Rinascimento europeo partiamo dalla cultura»
Particolare della «Scuola di Atene» di Raffaello Sanzio (1509-1511; foto Getty)

Signor presidente, si apre un biennio nel quale l’Italia sta avendo un ruolo da protagonista nella cultura europea. «Paese Ospite d’Onore» al Festival du Livre di Parigi, omaggio che si ripeterà nel 2024 alla Buchmesse di Francoforte, e ciò conferma l’interesse verso la nostra narrativa, poesia, filosofia e saggistica… Saranno presentati autori contemporanei e della tradizione, che ci legano all’identità dell’Europa. Possono essere anche eventi come questi gli «antidoti» di cui l’Ue ha bisogno per superare fragilità e riscoprirsi unita? Con una cultura certo plurale, ma su valori comuni?

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Sergio Mattarella (foto Paolo Giandotti)

«La partecipazione dell’Italia in veste d’ospite d’onore a due tra le più prestigiose occasioni culturali europee, oltre a riconoscere il contributo recato dalla civiltà italica al sentire globale, rappresenta una grande occasione per proseguire sulla strada di una osmosi che consolidi sempre più la piattaforma comune di valori sui quali si fonda la Casa europea.
L’incontro e il dialogo tra culture offre l’opportunità di conoscersi al di fuori di consolidati stereotipi e crea, nel confronto, le condizioni per superare la fragilità di una interpretazione dell’identità basata sulla chiusura e il rifiuto dell’altro. Il rispecchiarsi in uno spazio largo è ciò che ha consentito il crescere delle civiltà. Il sapere si è affermato come un valore democratico, anzi come condizione della stessa vita democratica. Non a caso l’accesso all’istruzione è divenuto uno dei diritti contemporanei. Un bagaglio di studi limitato è una barriera che, oltre a creare divari, genera incomprensioni e, dunque, conflittualità e, soprattutto, ci impedisce di progettare il futuro con chiavi interpretative adeguate a comprendere la complessità del nostro vivere contemporaneo.
Il libro, come ogni altra modalità di espressione della creatività umana, rappresenta uno strumento di condivisione della conoscenza.
Leggere è essenziale. Bisognerebbe leggere di più e, forse, la lettura del Milione di Marco Polo potrebbe aiutarci a comprendere lo spirito con cui va guardato il mondo.
Lo scambio apre le menti, tanto più per una cultura solida e ammirata come quella italiana. Consente di rimuovere pregiudizi e nozioni artefatte che ostacolano la conoscenza, ricacciandoci in recinti neo-tribali. Il progresso del mondo è avvenuto anche, se non soprattutto, grazie agli scambi con le culture “altre”.
Le trasformazioni repentine dei modelli di convivenza indotte dalle innovazioni tecnologiche, gli effetti dei cambiamenti climatici e della stessa crisi pandemica, i conflitti in atto, ci interrogano oggi profondamente nella nostra personalità. La cultura ci sorregge nella nostra capacità di immaginare fin d’ora il tempo nuovo, offrendoci criteri divenuti universali. La sfida è caratterizzata anche dal saper far migrare e incarnare i valori dei patti fondativi delle società contemporanee nelle architetture informatiche, che disegnano e influenzano in modo determinante le nostre società».

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Miriam Mafai, il giornalismo come passione civile e la capacità di dire: voglio avere tutto

giovedì, Aprile 20th, 2023

Annalisa Cuzzocrea

Comincio a dirvi chi non era, Miriam Mafai, perché non ci siano fraintendimenti. Miriam, che ha dedicato la sua vita fin da giovanissima alla causa del Partito Comunista Italiano, non era la ragazza rossa. Era una ragazza libera e lo è stata fino all’ultimo istante della sua vita. Non ha mai smesso di usare la ragione e non si è mai fatta tappare gli occhi dall’ideologia. Pur avendo – e sì che ce l’aveva – una fede incrollabile. Che viene fuori da qualsiasi cosa abbia scritto.Miriam credeva che l’ascolto, l’impegno, il lavoro, le parole, potessero cambiare il mondo. Non è mai stata pessimista perché non è mai stata arresa.

Quando ho cominciato a leggere tutto di lei, la prima cosa che ho invidiato – quante cose belle smuove l’invidia – è la passione civile. E quello che ho pensato è che quello che manca nel giornalismo, oggi, è la passione civile. Credere in qualcosa: lottare perché si affermi. Mi direte che questa è politica: andatelo a dire a George Orwell.

C’è una politica – la ricerca del bene della polis, della comunità – che si può fare fuori dai partiti e dalle istituzioni e Miriam Mafai l’ha fatta tanto più da giornalista che da funzionaria di partito, cosa che pure è stata, perché altrimenti non avrebbe saputo raccontare l’emancipazione delle donne durante la tragedia della Seconda guerra mondiale in Pane nero. Altrimenti, non sarebbe andata a descrivere cos’erano quelli che a noi sembrano oggi i pittoreschi sassi di Matera, un luogo dove le persone, i bambini, vivevano come bestie. Non avrebbe fatto un giro nelle miniere d’oltralpe in cui i reietti, nel dopoguerra, eravamo noi, i mangiaspaghetti, gli italiani umiliati e offesi degli anni dell’emigrazione di massa.

Se non ti spinge la certezza che la parola possa muovere qualcosa, che possa essere spada, come scriveva Leonardo Sciascia, non puoi neanche avvicinarti a capire chi era Miriam Mafai. L’incipit della sua biografia, Una vita quasi due, curata dalla figlia Sara Scalia, che non smetterò mai di ringraziare per l’ottima vellutata di zucca e per la fiducia con cui mi ha affidato i suoi ricordi, è questo: «Sono nata sotto il segno felice del disordine». Miriam viene da una famiglia fuori dalle regole ed è sempre rimasta fuori dalle regole, se per regole si intendono le convenzioni senza senso, la forma priva di sostanza. E non ha mai sbandato. Non ha mai smesso di seguire il filo della sua libertà e del suo impegno.

Aveva, come molti della sua generazione cresciuta dentro la carta stampata, il culto del giornale. Il giornale veniva prima di tutto. E c’è una cosa che spesso non si racconta di Miriam Mafai, perché la sua biografia e il suo carattere sono stati talmente particolari da prendersi tutta la scena: non si parla abbastanza dello stile. Della sua prosa asciutta arsa secca e al tempo vividissima. Della precisione del dettaglio. Del ritmo che segue uno spartito suo. Dei colori che sembrano venire da uno dei quadri di Mario Mafai.

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Valerio e Odifreddi tra divino e tecnologia

giovedì, Aprile 13th, 2023

Mirella Serri

Incollati davanti alla smart tv, dipendenti dall’iPhone, inseparabili dallo smartwatch al polso: la nostra nuova forma di religione, la nuova frontiera del divino è la tecnologia? Giriamo l’interrogativo a Chiara Valerio, autrice della bella ricerca La tecnologia è religione (Einaudi), e a Piergiorgio Odifreddi, matematico, logico e saggista la cui opera più famosa, Il matematico impertinente (Longanesi), sintetizza nel titolo il temperamento e la qualità del ricercatore, volto da sempre a superare barriere e luoghi comuni. I due matematici di vaglia appartengono a due diverse generazioni: Valerio, papà fisico a Frascati, classe 1978, è nata ed è cresciuta a Scauri. Ha conseguito la laurea e il dottorato in matematica all’Università partenopea Federico II, sull’argomento del calcolo delle probabilità. Il suo pamphlet La matematica è politica ha conquistato critica e pubblico. Odifreddi, nato a Cuneo nel 1950, ha come numi tutelari Bertrand Russell, matematico e intellettuale socialista democratico, e Noam Chomsky, linguista e filosofo socialista libertario, ed è uno dei massimi esperti di divulgazione scientifica e di storia della scienza.

Tecnologia e religione sono i duellanti del mondo moderno, si fronteggiano come ambiti di conoscenza e di interpretazione della realtà?

Valerio: «Per rispondere mi sembra opportuno risalire all’esperienza fatta di recente con mio nipote. Stavo sfogliando un libro con le figure e il piccolo Francesco a un certo punto ha appoggiato pollice e indice uniti sulla pagina e poi li ha separati proprio come si fa per ampliare sullo schermo le immagini di uno smartphone o di un i-Pad. Mi ha detto: “Ma questo libro non funziona”. Francesco è nato in un momento storico in cui la tecnologia ha raggiunto un grado di sviluppo così elevato che si possono confondere i fatti con le rappresentazioni e ritenerli sovrapponibili: il bambino si irrita se questo non avviene perché la tecnologia offre maggiori comodità, tra cui la ripetizione. Aggiungo un altro esempio solo in apparenza paradossale: che differenza c’è tra danzare per far piovere e schiacciare un tasto per illuminare uno schermo? In entrambi questi due casi, un nostro movimento induce un’azione che fornisce una risposta o soddisfa una richiesta. La danza della pioggia si rivolge al cielo e il dispositivo che ne attiva l’intervento è il nostro corpo. Nel secondo caso il dispositivo è un prolungamento del corpo – telefono, smartphone, telecomando – e l’invisibile a cui ci rivolgiamo è il campo elettromagnetico. In un universo in cui molte delle vicende umane sono state meccanizzate attraverso procedure algoritmiche, la tecnologia e la magia tendono a somigliarsi. Istintivamente l’uomo sostituisce l’effetto, che non sa spiegare, con la causa. Ho voluto così descrivere nel mio libro quello che oggi sta accadendo: quando si perdono i rapporti causali si tende a pensare che il mondo sia magico. La tecnologia è percepita come qualcosa di molto lontano dalla scienza e finisce che venga vissuta come una magia».

Odifreddi: «Per capire il rapporto tra tecnologia e religione possiamo ricordare il capolavoro di Arthur C. Clarke 2001: Odissea nello spazio in cui la tecnologia appare come una magia. Però, attenzione, sembrare non significa essere. La tecnologia, dice Chiara, è come fare la danza per la pioggia. I riti sono gli stessi ma i risultati sono diversi. Se uno fa la danza per la pioggia non è detto che necessariamente piova o comunque non piove perché c’è stata la danza. Dietro la tecnologia invece si nasconde la scienza. La magia poi si può intendere in due sensi: quella dei prestigiatori che non negano di stupire e affascinare attraverso dei trucchi.

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Governo, il principio di realtà

mercoledì, Aprile 12th, 2023

MASSIMO FRANCO

Attribuire le responsabilità di quanto accade solo al governo in carica sa di alibi delle minoranze almeno quanto sa di scaricabarile della destra la tentazione di addebitarle all’esecutivo di Draghi. Sarebbe meglio prendere atto della situazione e discuterne in modo meno elettoralistico

Governo, il principio di realtà
Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Ansa)

È difficile sottrarsi all’impressione di un governo sovrastato dalle emergenze. E circondato da una mole così imponente di variabili, da essere costretto a fotografarle e arginarle: senza potere ancora abbozzare una strategia in grado di prevenirle e sconfiggerle. Vale per l’immigrazione, che si presenta come un problema strutturale, fronteggiato ieri con la proclamazione di uno «stato di emergenza» di sei mesi. Anche lessicalmente, infatti, la risposta riflette un fenomeno difficilmente governabile; e aggravato dalla persistente indifferenza di gran parte dei Paesi europei.

Può darsi che alla fine il provvedimento serva davvero a rendere più efficaci e rapide le risposte. Ma sia l’esiguità dei fondi destinati allo scopo, sia i timori di un aggravamento del problema, già emerso nelle ultime settimane, consigliano cautela. Sottolineare troppo l’efficacia di misure che alla fine debbono fare i conti con una realtà difficile rischia sempre di rivelarsi a doppio taglio; e di dare fiato a opposizioni che oscillano tra istinti autodistruttivi e estremismo antigovernativo. Si tratta di dinamiche sempre più evidenti anche quando si parla di Piano per la ripresa.

Il fatto che la logica emergenziale si proietti quasi per inerzia perfino su un progetto strategico per l’Italia, finisce per oscurare limiti oggettivi e margini di manovra risicati.

Per quante critiche si possano rivolgere al governo di destra guidato da Giorgia Meloni, sottovoce il giudizio condiviso è che qualunque esecutivo si sarebbe trovato a affrontare problemi simili: di ritardi, di infrastrutture inadeguate, di difficoltà a spendere i finanziamenti europei.

L’opacità che si riscontra in alcuni dei progetti in incubazione è in primo luogo il frutto di una zavorra burocratica e culturale; e di un cambiamento dello sfondo in cui l’esecutivo è costretto a operare. Pandemia ma soprattutto aggressione russa all’Ucraina sono oggettivamente elementi di trasformazione dai quali nessuna nazione europea può prescindere. Probabilmente, quando a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi, la durezza della realtà veniva percepita in modo meno drammatico. Ma si intravedeva già allora.

È comprensibile che da sinistra si accusi Palazzo Chigi di mettere in discussione un’occasione storica per riformare il Paese. L’ammissione delle strozzature, fatta nelle scorse settimane da esponenti del governo, conferma un percorso tutt’altro che facile. Rivela la volontà di non nascondere una serie di passaggi che metteranno a dura prova la credibilità dell’Italia; e di evitare che una battuta d’arresto sui finanziamenti possa essere sfruttata da chi in Europa li ha sempre considerati troppo generosi, e magari aspira a ricalibrarli a proprio vantaggio.

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Il quartiere Coppedè, da un secolo la fiaba architettonica di Roma

sabato, Aprile 1st, 2023

È una specie di grande salotto della Capitale dove ville e palazzi sontuosi sembrano galleggiare in una dimensione senza tempo, tra fontane, affreschi e sculture

di Luca Bergamin

Il quartiere Coppedè, da un secolo la fiaba architettonica di Roma

È nascosto, ma non per la volontà di non farsi trovare, tra la Chiesa di Santa Maria Addolorata a Piazza Buenos Aires e il Liceo Ginnasio Giulio Cesare cantato da Antonello Venditti. I pavoni sulla facciata ricoperta di mosaici della parrocchia cara alla comunità argentina capitolina costituiscono i primi indizi della simbologia zoomorfa che rende curioso e spettacolare il quartiere Coppedè, oltre che unico visto che questo borgo che si sviluppa coi suoi teatrali villini intorno a Piazza Mincio è l’unico ad avere preso il nome da quello dell’architetto così eccentrico da creare uno stile proprio, appunto il Coppedè da Luigi, l’esponente più eclettico della omonima Casa Artistica attiva in Firenze. shadow carousel

Più o meno da un secolo è l’arco di via Dora (la toponomastica qui è tutta fluviale e se vi si giunge in un giorno di pioggia, come accade spesso nella primavera romana, ci si sente come trasportati da una all’altra delle oltre quaranta dimore liberty) dal quale pende un lampadario in ferro battuto con pendagli a forma di scudetti sui quali sono scolpiti cavallucci marini, a dare la prima impressione che si sta entrando in un grande salotto all’aria aperta di pietra e mattoni. Sull’altra facciata, invece, si incontrano le prime api scolpite, e ci si imbatte subito dopo nei mascheroni, nei musi leonini, nelle chiocciole. Anche gli atri dei palazzi sono sontuosi, eleganti. In quello al civico due, ad esempio, appena dopo il Palazzo degli Ambasciatori, tra gli affreschi compaiono leoni veneziani, amorini e putti baccanti, proprio laddove si trova la portineria in cui trascorre le sue giornate da 17 anni Marco Amore: «Lavorare qui significa entrare nel vissuto delle persone che abitano da generazioni questi luoghi, raccoglierne le confidenze, cercare di soddisfarne le esigenze. I miei condomini, in particolare, hanno votato affinché io indossi divisa coi galloni, a voler testimoniare come qui si tenga molto all’immagine e allo stile, quasi fosse un proiezione di quello che si vede all’esterno. Certo, la signorilità non è la stessa del passato, ci sono tanti proprietari che preferiscono affittare gli appartamenti».

La figlia dell’Alfa Romeo e il Piper di Patty Pravo

Nei primi anni successivi al completamento del quartiere, qui abitavano numerosi gerarchi fascisti, e anche Giulietta, figlia dell’Ingegnere Nicola Romeo, inventore del marchio automobilistico Alfa Romeo, scelse di vivere in questa scenografia architettonica fantasmagorica, in cui fanno capolino atmosfere prese dal film muto «Cabiria», mentre negli anni ’80 sarebbe stato Dario Argento a girarvi molte scene delle sue pellicole più note. Il Piper Club, che Patty Pravo face conoscere in tutta Italia, è ancora al proprio posto, nella strada parallela a Via Dora coi grossi fiori di cartapesta colorati ad adornare la facciata. Basta attraversare la strada, per entrare nelle fantasie di Gino Coppedè che tra il Palazzo degli Ambasciatori, quello del Ragno, i Villini delle Fate immaginò e fece realizzare — nella sua bottega si conoscevano alla perfezioni le arti dell’incisione, scultura, decorazione su ferro e legno — affreschi di velieri dalle vele gonfiate dal vento, sculture di draghi, grifoni, meduse, pesci, a rendere così vivide e plastiche le forme dei palazzi ispirati allo stile Gotico, flirtando volentieri col Barocco e il Manierismo. Michael Kelly, artista australiano, è venuto da Sydney apposta per disegnare sui suoi album queste figure animali, perciò ogni giorno da due mesi si siede di fronte alla Fontana delle Rane, l’autentico ombelico scultoreo del Quartiere Coppedè in Piazza Mincio, scoprendo ogni volta un dettaglio nuovo.

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Minà, quel gigantesco cronista che raccontò i grandi come nessuno

martedì, Marzo 28th, 2023

Antonio Barillà

Gianni Minà non c’è più. Una malattia cardiaca l’ha portato via in poco tempo. «Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari» si legge sulle sue pagine social ed è consolante, nella nebbia del dolore, immaginare un addio così dolce, tra sguardi amorevoli e mani accarezzate. Siamo più soli noi, senza più una guida preziosa, perché chiunque abbia bazzicato una redazione, abbia scelto o solo sognato questo mestiere, ha sperato di seguirne un poco le orme, di trasferire una goccia della sua sensibilità nelle interviste, di rubare un granello del suo stile, di strappare e custodire solo qualche pagina di quell’agenda leggendaria che ispirò una straordinaria gag con Massimo Troisi, suo grande amico.

“Addio guerriero”, il giornalista che amava raccontare gli ultimi. Il saluto del mondo della cultura e della politica

27 Marzo 2023

È impossibile, adesso, frugando tra aneddoti e ricordi, non pensare alla famosa cena romana in cui riuscì a riunire Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone, Robert De Niro e Muhammed Ali, in fondo lo spot della sua grandezza: «Un patrimonio dell’umanità da Checco il Carrettiere» raccontava, una vita dopo, sorridendo dietro i baffi folti. Facile. Troppo. Ci sono altre cene che raccontano bene Minà. Ritagliate in fondo a giornate lunghissime in locali della periferia torinese, a tavola non vip ma ragazzi intimiditi e orgogliosi, apprendisti in quel Tuttosport che lui, il Direttore, voleva accanto quando il giornale era chiuso. E non parlava mai di se stesso, vizio e vezzo di tanti grandi e pure di chi grande solo si sente, ma della bellezza del mestiere, della fortuna di raccontare, del privilegio d’essere testimoni nel mondo.

Gian Paolo Ormezzano parla dell’amico Gianni Minà: “Quella cena con Clay e De Niro, solo il Toro lo faceva sbiellare”

alberto infelise 27 Marzo 2023

Ascoltava, soprattutto. Confidenze e sogni. Li tirava fuori con facilità perché riusciva a sconfiggere la soggezione. Lo interrompevano per discutere di montaggi delicati o fissare appuntamenti importanti, lo chiamavano personaggi famosi, ma subito tornava a noi allievi, lo stesso rispetto, la stessa attenzione, lo stesso affetto. Si specchiava, in fondo, perché di Tuttosport, a 21 anni, anche lui era stato ragazzo di bottega. Torinese, aveva cominciato in quelle stanze, poi, nel 1960, era approdato alla Rai occupandosi di Olimpiadi e pian piano l’aveva scalata, lasciando un segno profondo: conduttore brillante, autore di reportage passati alla storia, curioso e preparato, capace di spaziare con immutate competenza e passione dalle cronache di boxe e di calcio ai grandi racconti dell’America Latina, terre di cui era innamorato. «Ho avuto la fortuna di lavorare in Rai quando la Rai puntava in alto».

L’improbabile intervista di Gianni Minà

YOANI SANCHEZ 27 Marzo 2023

Nel suo Blitz, innovativo programma tv, intervennero Federico Fellini, Sergio Leone, Ali e De Niro, Jane Fonda. Intervistò per sedici ore Fidel Castro, al quale fu legato da uno speciale rapporto, e raccontò Maradona intimo come nessuno, cogliendone fragilità e tenerezze sconosciute al grande pubblico. Anche del Pibe, era amico. E di Troisi.

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Il David in mutande

sabato, Marzo 25th, 2023

di Massimo Gramellini

Ormai è appurato che in America i fessi hanno un serio problema con le statue. Mentre i fessi progressisti le fanno abbattere, quelli reazionari fanno licenziare la preside che ha osato tenere una lezione d’arte sul David di Michelangelo. Siamo a Tallahassee, nella Florida di Ron deSantis, la versione «light» di Donald Trump, ma sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro Stato dell’Unione, eccetto forse in quello di New York, in California e in qualche altro. Ad accendersi di sacro sdegno sono stati i genitori dei ragazzi. Immaginate la scena: gli studenti tornano a casa e mostrano ai loro cari l’immagine del capolavoro rinascimentale come se l’avessero appena trovata su Onlyfans. L’occhio di mamma e papà non indugia sull’armonia delle forme, ma va a cascare proprio là, dove si aspetterebbe di trovare delle mutande di marmo, magari sponsorizzate. Le chat dei genitori prendono fuoco: si chiede e si ottiene la testa della professoressa reproba, per propaganda e smercio di materiale pornografico.

Come passa (male) il tempo. Cinque secoli fa Firenze ospitò un dibattito sul luogo più adatto a ospitare il David di Michelangelo a cui parteciparono, tra gli altri, Botticelli e Leonardo. Cinque secoli dopo, in Florida, si caccia da scuola chi lo mostra. Certo, quella era una élite di statura mondiale mentre costoro sono degli ignoranti. È proprio questo il problema: hanno censurato il David perché li disturba, ma li disturba perché non sanno che è il David.

CORRIERE.IT

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Concita De Gregorio: la malattia solo un pezzo di me

mercoledì, Marzo 15th, 2023

ANNALISA CUZZOCREA

Dovete immaginare un giardino d’estate, una telefonata e un’amica – la più brava, l’infallibile, l’inarrestabile – che ti chiede: «Mi controlli tu il pezzo, lo guardi bene?». E poi ti dice: «L’ho scritto da sdraiata».

Concita De Gregorio ha avuto un cancro, lo ha detto parlando con Francesca Fagnani, a Belve, su Raidue. Non sapeva se lo avrebbe detto lì, ma poi è arrivata quella domanda: «Cos’ha pensato quando hanno scritto che si è fatta lo stesso taglio di Giorgia Meloni?». E la risposta: «Stavo per chiamare il direttore perché io preferirei avere i miei capelli. Questa è una parrucca».

La telefonata nel giardino d’estate è arrivata ad agosto perché è ad agosto che Concita si è operata. Lo sapevano le persone più vicine, non ha voluto dirlo agli altri. Ma «Bisogna sempre pensare che la persona con cui parli o di cui parli, da qualche parte, può avere un danno», dice ora. Vale per tutti, vale un po’ di più per chi di mestiere racconta il mondo. E invece, ci si pensa sempre troppo poco.

Non sapeva se l’avrebbe detto lì, Concita, ma sapeva che a un certo punto del viaggio lo avrebbe fatto. E non per sé. «Mi sono curata per un anno in una struttura pubblica, al Policlinico Gemelli a Roma. Il percorso in day hospital, la chemioterapia in day hospital: uno stanzone in cui non sei mai solo. Poi il reparto Terapie integrate che è un posto meraviglioso dove si prendono cura di te con il supporto psicologico, la fisioterapia, l’agopuntura, il nutrizionista. Anche questo è servizio pubblico. Vorrei dirlo perché abbiamo un grande problema con la sanità italiana, ma ci sono luoghi di eccellenza dove la persona viene prima del malato».

L’ha operata Riccardo Masetti, l’ideatore di Race for the cure. «Ho conosciuto solo persone che hanno avuto una cura straordinaria, ma non per me. Io ero in fila con il mio numero. L’hanno avuta nello stesso identico modo per chi era in fila prima di me e per chi stava dopo. Ho capito, ho saputo, che le donne che patiscono questo tipo di cancro sono una su quattro. E quindi, facendo i conti con la mia vita, ho pensato che moltissime persone che conosco o che noi conosciamo attraversano questo percorso in silenzio e in solitudine, senza dirlo. Magari perché in quel momento si vergognano di essere più deboli, meno attraenti, più fragili, meno competitive: lo stigma della malattia».

Così, «Fin dal primo momento ho pensato che questa cosa dovevo dirla in qualche modo anche per dare un posto a tutti quelli che fanno fatica. Stare in mezzo a queste persone, moltissime donne straniere, che non parlano bene l’italiano, mi ha fatto subito pensare che sarebbe stato giusto, a un certo punto, dire: guardate, sta capitando anche a me, si può fare senza che questo debba diventare tutta la tua vita. Senza trasformarti nella tua malattia. Sei una persona che ha una malattia, che cura quella malattia».

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