Archive for the ‘Cultura’ Category

Morto Raffaele La Capria, lo scrittore che aveva Napoli nell’anima

lunedì, Giugno 27th, 2022

di ANTONIO CARIOTI

Con il suo capolavoro «Ferito a morte» vinse il premio Strega nel 1961. E da sceneggiatore vinse il Leone d’Oro a Venezia per il film «Le mani sulla città» di Rosi

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Raffaele La Capria (1922-2022; foto Effigie)

Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il «Corriere della Sera». Eppure l’opera di Raffaele La Capria, scomparso all’età di 99 anni, era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la «Foresta Vergine» capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme». Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato.

A Napoli era ambientato il suo capolavoro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Un denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986).

Nato il 3 ottobre 1922, La Capria era cresciuto nello splendido palazzo monumentale Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto gli anni della sua prima formazione sotto l’influenza fuorviante del fascismo, nutrendosi però anche di letture poco ortodosse. Poi, durante la guerra, si era ritrovato ventenne dalle parti di Brindisi «in una divisa troppo larga, con un fucile troppo antiquato, uno zaino troppo pesante, goffo e impreparato in ogni senso».

Per fortuna l’esperienza sotto le armi era durata poco: anche se la Napoli occupata dagli angloamericani era una specie di Babilonia caotica e corrotta, quella vitalità selvaggia aveva offerto opportunità e speranze a ragazzi come lui e i suoi amici più cari, molti dei quali destinati a carriere importanti: nel giornalismo Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson; nel cinema il già citato Rosi; in campo teatrale Giuseppe Patroni Griffi; in politica Francesco Compagna e soprattutto Giorgio Napolitano, futuro capo dello Stato.

Allora forte era il fascino del Pci. Ma La Capria non ne era rimasto pienamente catturato, a differenza di alcuni suoi amici. Di certo guardava a sinistra ed era rimasto assai deluso dalla stabilizzazione moderata seguita alle elezioni politiche del 1948. Ai suoi occhi Napoli era riprecipitata nella mediocrità provinciale, era tornata ad essere un «mortorio» da cui aveva preferito andarsene. Frutto del disagio avvertito allora è il primo romanzo di La Capria, Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952), che avrebbe avuto diverse stesure. Un prodotto ancora acerbo rispetto al successivo e ben più elaborato Ferito a morte.

Nella sua opera più importante, uscita nove anni dopo l’esordio, La Capria sperimenta una narrazione su piani multipli, che sovverte la successione temporale degli eventi, nel caleidoscopio dei ricordi che attraversano il dormiveglia del giovane Massimo De Luca (personaggio in cui l’autore raffigura sé stesso) la mattina del giorno che lo vedrà partire da Napoli per trasferirsi a Roma. Non era un romanzo facile, anche se il pubblico lo aveva gradito ed era stato tradotto all’estero.

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La cultura a rischio fallimento

domenica, Giugno 26th, 2022

di Aldo Grasso

Tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura. Tutto quello che pensiamo sia cultura è a rischio fallimento, in certi casi a fallimento totale. Come testimonia «ItsArt», «la Netflix italiana della cultura», secondo la definizione del suo promotore, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini.

Il bilancio del 2021 di «ItsArt», controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili, dice che la società ha perso quasi 7,5 milioni di euro nel corso del primo anno di attività.

Di fatto ha dimezzato la sua liquidità, visto che l’impresa era decollata con circa 15 milioni di euro effettivi.

Secondo un’analisi di Luciano Capone sul Foglio, la piattaforma ha grosse perdite e incassi bassissimi: 240 mila euro (0,7 € l’anno per utente). La riserva messa da Cdp è finita e servono altri soldi.

La cosa più triste non sono i tre amministratori delegati cambiati in poco tempo, ma la totale mancanza di una linea culturale: «ItsArt» è un modesto catalogo di varia umanità: con i soldi investiti, Rai Cultura avrebbe ora un’offerta più ricca e interessante, anche internazionale.

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Sviatihirsk Lavra, bombe sul monastero della Santa Dormizione cinquecentesco. L’ira di Zelensky

domenica, Giugno 5th, 2022

di Lorenzo Cremonesi

L’attacco sulla struttura lignea di Tutti i Santi a Sviatohirsk Lavra, uno dei più noti monasteri ortodossi della regione di Donetsk. Il presidente: «60 bambini all’interno». Mosca: «Sono stati gli ucraini»

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Dal nostro inviato
UMAN (Ucraina occidentale) — Ancora il patrimonio culturale, religioso e architettonico dell’Ucraina torna vittima della guerra scatenata dall’invasione russa cominciata ormai 101 giorni fa. Questa volta ad essere in fiamme è la magnifica e antica struttura lignea di Tutti i Santi, nel complesso del Sviatohirsk Lavra, uno dei più noti monasteri ortodossi della regione di Donetsk, proprio nel cuore del Donbass conteso.

Le accuse di Zelensky

Colpito da alcune bombe in mattinata, l’intero corpo centrale è in fiamme: bruciano i campanili, le torri e la parte alta dalla basilica. Di chi è la colpa? Mosca e Kiev da parte loro negano ogni responsabilità e si accusano a vicenda. «Un altro crimine commesso dai barbari russi, i quali non hanno alcun rispetto per il sacro», scrive su Facebook Yuri Kochevenko, un ufficiale dell’esercito ucraino sul posto, allegando diverse immagini del monastero che arde come un cerino. Il governo di Kiev conferma l’incendio, aggiungendo che al momento del bombardamento nel monastero si trovavano oltre 300 sfollati. Il presidente Zelensky denuncia via Telegram: «Gli occupanti sapevano cosa stavano bombardando. Sanno che non ci sono militari nel territorio del monastero, solo 300 laici che avevano trovato rifugio e tra loro 60 bambini. Ma i russi l’hanno bombardato lo stesso, come il resto del Donbass».

La versione di Mosca

Il ministero della Difesa a Mosca accusa direttamente le «truppe nazionaliste» ucraine e in particolare i soldati della 79esima Brigata d’assalto aviotrasportata. «Secondo fonti locali, sono state sparati proiettili incendiari da una potente mitragliatrice montata su di un mezzo blindato del tipo Kozak», si legge con l’aggiunta per cui in questo momento le unità russe non starebbero operando nella zona del monastero proprio per evitare di danneggiarlo.

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Anniversari. Perché il 2 giugno merita di essere una vera festa

giovedì, Giugno 2nd, 2022

di Simonetta Fiori

E’ una data fondativa, una delle più importanti del nostro calendario civile. Ma il 2 giugno non è riuscito mai a decollare come grande festa popolare, come pure fu nell’immediato dopoguerra. E come avviene in altri paesi per celebrazioni di analoga importanza, il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti, tra balli in piazza e fuochi d’artificio. Da noi, al di là della parata militare e del brivido delle frecce tricolori, il giorno della Repubblica stenta a farsi rituale vivo nella comunità. Lo rivela anche una recente indagine nelle scuole. Sollecitati da un’équipe di storici, molti studenti prossimi alla maturità classica hanno liquidato l’anniversario repubblicano come il primo ponte verso l’estate. O comunque l’inizio delle vacanze. Niente più di questo.

Quanti sanno che cosa è accaduto tra il 2 e il 3 giugno del 1946, data del referendum istituzionale e punto di partenza del processo di costruzione della democrazia italiana con l’elezione dell’assemblea costituente? Quanti conoscono quel “miracolo della ragione” (copyright Piero Calamandrei) per il quale “una Repubblica è stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re”? Dei nostri vuoti di memoria si è occupata l’Associazione di Public History nella conferenza annuale promossa al Museo del Novecento di Mestre. Sin dalla titolazione, “Storia bene comune”, l’iniziativa ha tratto ispirazione dal manifesto scritto per Repubblica nel 2019 da Andrea Giardina e firmato da Liliana Segre e Andrea Camilleri dopo la soppressione del tema storico alla maturità.

Chi sono i responsabili di questa nostra diffusa smemoratezza? Non si è trattato di un vero processo contro i colpevoli, ma certo sono emerse molte connivenze e complicità. A cominciare da quelle degli storici che hanno raccontato il parto repubblicano in modo approssimativo e distorto. Per porre riparo a una storia mal narrata, Maurizio Ridolfi ha coordinato un progetto in sei volumi edito da Viella, 2 giugno. Nascita, storia e memorie della Repubblica. “La nostra nuova indagine”, dice Ridolfi, “nasce proprio dalla consapevolezza che molti studiosi avevano trattato questa data fondativa in modo inadeguato. Prendiamo i manuali scolastici: generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare”.

L’opera di Viella approfondisce aspetti del voto referendario finora trascurati, a partire dal rapporto con la demografia. “Quel referendum disse altro rispetto alle narrazioni dei libri di testo”, continua Ridolfi. “Bastano solo due cifre per mutare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione: quel venti per cento fu decisivo! La fotografia dell’atto fondativo ne risulta profondamente modificata: la Repubblica fu il frutto di diversità legate alla storia e alle differenti culture politiche ereditate dal primo dopoguerra, ma esisteva una prospettiva comune che mirava a creare qualcosa di nuovo. Se si cancella questa comunione di intenti, si finisce per indebolire l’immagine del 2 giugno come importante festa nazionale”.

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Enrico Berlinguer, il comunista democratico

mercoledì, Maggio 25th, 2022

Federico Geremicca

Oggi Enrico Berlinguer avrebbe compiuto cento anni: e non è molto usuale il fatto che un anniversario che ormai dovrebbe esser materia per storici, rimandi – al contrario – un profilo di evidente attualità. Capita, in genere, per le vite che – in ogni epoca – continuano a rappresentare un esempio. O per le menti che abbiano accelerato il futuro, in una sorta di preveggenza. La parabola di Berlinguer racchiude, in fondo, entrambi gli aspetti. Mitizzati o contestati, certo. Ma sempre meno divisivi: il che, al tempo d’oggi, qualcosa vorrà pur dire.

Per qualche anno, subito dopo la sua scomparsa, ci si è abbandonati all’idea che l’empatia che accompagnava il suo ricordo fosse dovuta alle circostanze drammatiche della sua morte in diretta, quei colpi di tosse, lo strazio e la voce che manca in quell’ultimo comizio padovano. Una fine a suo modo eroica, e gli eroi – come si sa – sono sempre giovani e belli. Già i suoi funerali, del resto, rappresentarono un evento zeppo di altri piccoli eventi: a cominciare dall’inatteso omaggio di un “capomanipolo” fascista (Giorgio Almirante) al feretro di un capo comunista.

«Sono venuto a salutare un uomo onesto», si limitò a spiegare. Ma furono episodi come questo ad accrescere la stima e la simpatia bipartisan che hanno circondato a lungo il ricordo del Segretario del PCI: consegnandolo, però, a una memoria più eroica che umana, e relegandolo in una sorta di Pantheon dell’etica, con poco spazio per la passione e la caratura politica che avevano contraddistinto tutta la sua vita.

La lettura (o rilettura) dell’appena riedita biografia a lui dedicata (Vita di Enrico Berlinguer, di Giuseppe Fiori, con prefazione di Walter Veltroni) aiuta molto a contestualizzare pensiero e intuizioni del leader comunista, mostrandone la sorprendente attualità. Basterebbe rileggere le pagine, talvolta drammatiche, che ripropongono le tre linee guida – diciamo così – della sua azione politica: il lento distacco dall’Unione Sovietica («si è esaurita la spinta propulsiva») e la scelta favore della Nato; la ricerca di una larga unità politica, a cominciare da una nuova attenzione all’universo cattolico; l’approdo, infine, ad una «alternativa democratica» che avesse come fulcro e sua ragione l’affermarsi di una dilagante «questione morale».

Non c’è voluto molto perché la cronaca annunciasse la fondatezza di quelle intuizioni: cinque anni dopo la morte di Berlinguer, il Muro di Berlino cade a pezzi, causa il totale esaurimento della cosiddetta spinta propulsiva; a seguire è Tangentopoli a confermare quanto fosse estesa e devastante quella questione morale denunciata dal leader PCI; e qualche tempo dopo, l’approdo finale della lunga marcia di gran parte degli eredi di quella storia è stata appunto la nascita di un nuovo partito che tentasse di tenere assieme ex comunisti e cattolici.

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Cacciari a Giannini: “L’Europa dei padri fondatori è morta. Dal’11 settembre è iniziata la catastrofe”

venerdì, Maggio 20th, 2022

di Massimo Giannini

“Il dibattito sui talk show dimentica tutto quello da cui siamo partiti, ovvero la catstrofe di una certa idea di Europa: un’idea federale, in cui le Nazioni sono in accordo tra loro non sulla base dell’omologazione ma sulla base delle differenze di ognuno. Differenze che costituirscono i valori d’Europa”. Massimo cacciari dialoga con Massimo Giannini. Partendo dalla guerra ucraina, torna all’idea iniziale di Europa, quella dei padri fondatori, dichiarandola morta. La colpa? Delle emergenze. “Dall’11 settembre è iniziata la castrofe, c’è stata una reazione totale a queste idee”, sostiene il professore e filosofo veneziano. L’intervento insieme al direttore de La Stampa.

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L’Occidente libero è il capro espiatorio sbagliato

lunedì, Maggio 2nd, 2022

di Beppe Severgnini

Le improbabili argomentazioni del ministro degli Esteri russo Lavrov

Cosa fai, quando capisci di aver sbagliato? Inventi scuse. Lo fanno gli allenatori dopo una partita persa, gli imprenditori dopo un investimento sballato, gli studenti dopo un’interrogazione finita male. Lo fanno anche i regimi e i loro portavoce, quando le cose si mettono male.

  Interessante l’intervista del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov all’agenzia cinese Xinhua. Ha detto, tra le altre cose: «La nostra operazione militare speciale in Ucraina contribuisce al processo di liberazione del mondo dall’oppressione dell’Occidente neo-coloniale, mescolata in modo pesante con il razzismo e l’esclusione di chi non rientra in questo quadro».

  Capire perché una vecchia volpe internazionale come Lavrov affermi certe cose non è difficile. Cerca appoggi fuori dalle democrazie. L’accusa al mondo libero di essere «neocoloniale» e «razzista» è un tentativo patetico di stendere una vernice ideologica su una guerra assurda e orribile, che Mosca aveva sottovalutato.

  I giornalisti, gli oppositori e gli uomini d’affari russi che muoiono misteriosamente? Non esistono. La corruzione endemica? Non se ne parla. Gli arricchimenti personali dei governanti, le famiglie allargate che vivono all’estero nel lusso? Tabù. Meglio tirar fuori improbabili «processi di liberazione». Se ci pensate, è il trucco che usano i despoti africani. Pare che funzioni.

  Meno facile è capire com’è possibile che, in Occidente, qualcuno si beva questa roba. È vero, le nostre democrazie non sono perfette. Ma volete la prova che qui si vive meglio che là? Moltissimi russi si trasferirebbero domani a Roma, Berlino, Londra, San Francisco, Melbourne. Quanti occidentali sono disposti a trasferirsi a Mosca, oggi? Quasi nessuno. Magari quelli che sventolano le bandierine russe sui profili social? Ma figuriamoci.

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Da Dresda a Srebrenica, i massacri che la Storia non potrà cancellare

lunedì, Aprile 4th, 2022

di Gianni Riotta

“Un rintocco di campane fu il primo segnale, acuto come il grido di un gufo. Afferrai mio figlio Inaki, aveva 17 mesi, presi a correre, senza fermarmi. Un aereo nazista, un Heinkel 51S imparai dopo, prese a inseguire me e il bambino, sul fiume, intorno a un pino, gridavo: perché me, perché me?”, ricordava Maria Aguirre che, a 27 anni, viveva a Guernica, la città basca che il gerarca nazista Hermann Göring, scelse il 26 aprile del 1937, come laboratorio “per la mia giovane Luftwaffe”, impiegando per la prima volta la strategia del terrore aereo ideata dal generale italiano Giulio Douhet nel trattato “Il dominio dell’aria”. “Non avevamo nulla per difenderci, un paio di vecchi cannoni, pochi fucili catenaccio, qualche schioppo da caccia – piangeva un altro sopravvissuto, Jose Larruzea Larrinaga – mi buttai in un fosso con i nipoti, i tedeschi volavano così bassi che guardavo i piloti negli occhi”. Il parroco, Jose Luis Abaunza, raccolse i certificati di battesimo per contare le vittime fra i 6000 cittadini, secondo lo storico americano Herbert Southworth 1600 morti e 900 feriti. Guernica è da allora, anche grazie al capolavoro di Pablo Picasso, capofila delle città martiri in guerra, eppure fu la prima a subire l’oltraggio della menzogna, che rivediamo nei talk show: il dittatore fascista Francisco Franco, alleato nella guerra civile spagnola di tedeschi e italiani, attribuì la strage “a terroristi baschi rossi in ritirata, con la dinamite”, facendo scrivere allo storico Ricardo de la Cierva “I morti a Guernica? Una dozzina”. Tre giorni dopo il raid, le truppe franchiste entrarono nell’abitato, completando il massacro, casa per casa.

I video da Bucha, sobborgo della capitale ucraina Kiev, con i civili morti in terra, mani legate da cappi biancastri, allungano la dolorosa catena delle città martiri, quando i civili – come Douhet preconizzava – con le loro case e vite quotidiane, si trovano in prima linea. Lo scrittore americano Kurt Vonnegut era, nel febbraio del 1945, prigioniero dei tedeschi, recluso a Dresda, costretto a lavorare al “Mattatoio numero 5”. In una lettera alla famiglia, subito dopo la liberazione, scriveva “Il 14 del mese, in 24 ore, aerei Usa e RAF britannica hanno raso al suolo la più bella delle città, ucciso 250.000 persone: ma non me”. Dalla tragedia Vonnegut trae il suo più struggente romanzo, “Mattatoio n. 5” (Feltrinelli), Dresda, borgo di arte gotica, non aveva fabbriche di armi o obiettivi strategici, ma il maresciallo Sir Bomber Harris, capo del Bomber Command alleato, voleva spezzare il morale della Germania e la incenerì. A cavallo di San Valentino, 13 e 15 febbraio 1945, bruciano nel rogo tra 25.000 e 40.000 civili, prende fuoco l’atmosfera stessa, lasciando asfissiati i civili nei rifugi. Winfried Sebald, autore del classico “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), annoterà “il senso mai provato di umiliazione nazionale subito da milioni di tedeschi…non troverà più un’espressione verbale, e chi fu colpito da quella esperienza, non riuscirà a comunicarla alle future generazioni”.

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Perché l’uomo continua a farsi guerra? Le lettere tra Einstein e Freud raccontate da Massini: la risposta dello psicoanalista è sorprendente

mercoledì, Marzo 30th, 2022

Nel suo intervento a Piazzapulita su La7, Stefano Massini racconta lo scambio di lettere nel 1932 fra Albert Einstein e Sigmund Freud, sul perché l’uomo continui a ricorrere alla guerra nonostante il progresso. E la risposta di Freud è sorprendente. Video La7/PiazzaPulita

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Guerra Russia-Ucraina, il mese che ha cambiato la vita degli ucraini e le nostre

giovedì, Marzo 24th, 2022

Francesca Mannocchi

La vita di prima è finita. La guerra si può riassumere così, con una frase netta che parla solo al tempo presente.

Quando sono atterrata a Kiev, il 20 febbraio scorso, la città era imponente e nervosa, le truppe russe erano già da settimane ammassate ai confini dell’Ucraina e pur consapevole della minaccia reale di un conflitto, restavo convinta che Putin non avrebbe lanciato una guerra totale contro l’Ucraina, certa che Mosca avrebbe inasprito i combattimenti in Donbass e che sarebbe stato quello – il territorio delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk – il palcoscenico militare su cui si sarebbe consumata la muscolare, temporanea, espressione della forza per fare pressione sulla Nato, portare a casa qualche risultato, un pezzo di territorio forse, rosicchiare un po’ di consenso e mantenere una solida, internazionale, impunità. Pensavo che raccontare la crisi da Kiev significasse osservarla da lontano, da un luogo inquieto sì, ma tutto sommato confortevole. Le guerre, ci hanno insegnato, si devono guardare da vicino e il posto piu’ prossimo da cui osservare questo conflitto, solo un mese fa, era appunto il Donbass. Così, affacciata all’undicesimo piano di un hotel del centro di Kiev – le pubblicità delle collezioni delle grandi firme a illuminare i larghi viali della capitale, gli annunci dei concerti pop e della stagione dell’opera – ho deciso che avrei preso un volo per Kharkiv già il giorno successivo e che da lì mi sarei spostata in auto a Kramatorsk, città duramente contesa nel 2014, e rimasta sotto controllo ucraino dopo che Donetsk è finita sotto il controllo dei separatisti. Era lì la linea di contatto, era lì che sarebbe di certo, accaduto qualcosa, ma l’eventualità di un assalto su vasta scala pareva non solo irrazionale ma svantaggiosa anche per i russi che continuavano a negare ogni intenzione di invasione.

Anche a Kramatorsk, nonostante la prossimità con la linea del fronte, nessuno si stava davvero preparando a una possibile spirale militare: non erano stati predisposti alloggi in prospettiva dell’arrivo degli sfollati, non c’erano centri di accoglienza riforniti di cibo e acqua, e gli ospedali non erano in allerta. Nessuno a fare scorta di sangue o medicine. E’ l’abitudine alla guerra, mi sono detta. Forse è così che funziona, se hai il fronte in casa per otto anni, alla fine quasi non ci pensi piu’ e la guerra diventa qualcosa che semplicemente è lì, sulla linea del fronte, sulla linea di contatto.

Che c’era di piu’ l’avrei capito passeggiando nella piazza di Kramatorsk con Olixey, trent’anni e una figlia di otto. Cosa fai se si intensificano i combattimenti in Donbass? gli avevo chiesto. Immaginavo una risposta patriottica, l’ostentazione d’orgoglio di un giovane che vede la sua nazione minacciata e non indugia, si unisce all’esercito, alle Unità di Difesa Territoriale e va a combattere. Invece Olixey ha detto: provo a nascondermi perché ho paura.

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