Archive for the ‘Cultura’ Category

Guerra Russia-Ucraina, Amelia e il canto infinito

martedì, Marzo 22nd, 2022

Annalisa Cuzzocrea

Amelia Anisovych ha sette anni e incredibilmente nessuna paura. Avanza a piccoli passi, nelle sue scarpe d’argento, su un palco buio ed enorme. Vede il segno bianco disegnato per terra, lì dove le hanno detto di stare. Fa un salto per andarci sopra. Davanti a lei un mare di luci, tenute su dalle decine di migliaia di persone che riempiono l’Atlas Arena di Łódź, in Polonia. Dietro di lei, un’orchestra muta. In ascolto.

Amelia prende fiato come due settimane fa, quando era in un rifugio antiaereo di Kiev. Prende fiato, e canta. Stavolta non è la canzone di Frozen, quella che ricordava tutta a memoria e che per questo le dava sicurezza. «Perché una volta all’asilo volevo cantare e non ricordavo le parole, mi sono fermata e ho detto mai più, non succederà mai più».

Stavolta Amelia Anisovych canta l’inno nazionale del suo Paese e in uno stadio strapieno non si sente un respiro che non sia il suo. Così come in quel bunker, pieno di terrore e disperazione, tutto si era fermato per ascoltare la sua voce di cristallo ripetere un motivo che conoscono i bambini e i genitori di tutto il mondo. Per poi esplodere in un «bravo!», mentre lei portava le mani alla bocca per l’emozione e la gioia di essere arrivata, stavolta, fino in fondo.

Se fosse una favola, se in questo tempo impazzito esistesse ancora qualcosa di giusto, quella voce fermerebbe la guerra, le bombe, i missili supersonici, la distruzione, le fosse comuni nelle trincee, le irruzioni casa per casa, la ricerca dei tatuaggi sui corpi, delle foto di soldati sui telefonini. Fermerebbe i carri armati e i colpi di mortaio e le schegge che hanno colpito bambini come Amelia. Uccidendoli, ferendoli, menomandoli.

Ci sono troppi bambini in questa guerra. Vediamo troppi bambini con i loro peluche e gli animali domestici e gli unicorni colorati. Ci sono troppi bambini e troppa innocenza tradita in ogni guerra. Quando abbiamo visto Aylan Kurdi riconsegnato dal mare sulle rive di Bodrum, abbiamo pensato: «Mai più». Perché con la sua maglietta rossa e le sue scarpe allacciate assomigliava ai figli che vediamo dormire nelle nostre case. E il pensiero che ci siano figli come i nostri in Siria, che soffrono, scappano, muoiono in un naufragio, gelano nel bosco che li separa da un posto che chiamiamo Europa, ci era d’un tratto diventato insopportabile.

Ma la foto di Aylan è sbiadita e con lei le nostre buone intenzioni. I video di Amelia che canta nel rifugio e poi su un palco, proprio come aveva detto di sognare, sono l’incantesimo che mostra al mondo cos’è giusto e cos’è sbagliato. Cosa ha senso e cosa non ne ha. Per dirla con un linguaggio forse lontano dalle ragioni dalla geopolitica, ma vicino al pensiero dei bambini – e dei filosofi – mostrano dov’è il bene e dov’è il male. E sì, se fosse una favola fermerebbero tutto.

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Paolo Nori: “Non so cosa temano di Dostoevskij, essere russo non può essere una colpa”

giovedì, Marzo 3rd, 2022

ANNALISA CUZZOCREA

Quale ateneo, quale tempio del sapere, quale luogo di conoscenza, può considerare Fëdor Michajlovič Dostoevskij un pericolo? È questa la domanda che ruota intorno all’incredibile vicenda raccontata da Paolo Nori in un post Instagram diventato virale: un’università italiana, la Bicocca di Milano, ha comunicato allo scrittore – profondo conoscitore della Russia, della sua letteratura come delle sue città, della sua lingua come della sua anima – che il ciclo di lezioni sull’autore di Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, L’Idiota, veniva sospeso a causa della situazione internazionale. Al che Paolo Nori, che sa raccontare la Russia come un romanzo e la sua vita quotidiana come fortunati sketch di teatro, ha strabuzzato gli occhi, ha puntato il cursore del portatile di nuovo su, ha riletto daccapo. Poi ha pensato: «Che teste di c…Lo scriva, lo scriva pure: che teste di c.».

Vedendo le sue lacrime sui social non si può non pensare al suo ultimo romanzo, Sanguina ancora. È sempre Dostoevskij a farla sanguinare. Ma stavolta i suoi libri non c’entrano.
«Cosa può far paura di Dostoevskij? Cosa temono di un uomo che è stato condannato a morte perché aveva letto pubblicamente una lettera proibita nel 1849?».

L’università parla di un malinteso, il corso si farà.
«Non so ancora se accettare e anzi non penso che lo farò. A meno che non mi dicano la verità: cosa hanno ritenuto imbarazzante di Dostoevskij riguardo alla guerra? La mail che mi hanno mandato è chiarissima: “Il prorettore alla didattica, d’accordo con la rettrice, ha deciso di rimandare il percorso su Dostoevskij per evitare tensioni interne in questo momento di politica internazionale”. Che malinteso può esserci in una lettera del genere?».

Lei cosa pensa di quel che sta accadendo in Russia e in Ucraina?
«A lezione con i ragazzi del secondo anno (Nori insegna allo Iulm, ndr)abbiamo tradotto l’editoriale del premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, il direttore della Novaya Gazeta. Racconta che si sono ritrovati addolorati in redazione e c’è quest’immagine di Putin con in mano il pulsante nucleare come fosse il portachiave di una macchina lussuosa, come stesse giocando. Muratov scrive: “Ci rifiutiamo di considerare l’Ucraina un popolo nemico, questo numero del giornale esce in edizione bilingue, in russo e in ucraino, che non sarà mai per noi la lingua del nemico”. Ecco, io sono contento di aver portato dentro l’università questa roba qui. E ho scritto a un grande fotografo russo, Alexander Gronsky, arrestato in Russia per aver protestato contro la guerra, perché a Reggio Emilia hanno cancellato la sua partecipazione al Festival Fotografia. Gli hanno revocato l’invito perché russo. Mi sono scusato, gli ho detto che mi dispiace».

Le ha risposto?
«Sì. Mi ha detto che non riesce a essere tanto dispiaciuto per la revoca perché soffre per l’Ucraina. Questa guerra è una condanna per tutti. Ci stiamo dimenticando che in Russia ci sono persone così e non dobbiamo farlo. Io voglio ribadire il mio amore per la Russia oggi più che mai».

Si aspettava dall’università questo istinto di censura?
«Nella risposta ho scritto: “Sono senza parole”. Quasi non volevo raccontarlo».

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Luc Montagnier, da Nobel a idolo No-Vax l’ascesa e la caduta del signore dell’Aids

venerdì, Febbraio 11th, 2022

Piergiorgio Odifreddi

Luc Montagnier è morto ieri a Parigi, a 89 anni. Io l’ho conosciuto nel 2015, a un meeting quinquennale che si tiene a Lindau, sul lago di Costanza. Vi sono invitati tutti i premi Nobel scientifici, e quella volta ce n’erano sessanta: una compagnia in cui una persona normale si trova ovviamente a disagio e in imbarazzo, anche se in realtà fa più impressione un premio Nobel isolato, che tanti messi assieme. Infatti Jim Watson, che è il più famoso scienziato vivente, non c’era: lui evita ogni meeting con più di due o tre premiati, perché sa che la sua luce brillante ne risulterebbe un po’ offuscata.

C’era invece Montagnier, e confesso di aver provato tenerezza per lui. Il meeting era organizzato in modo che a ogni grande tavola si sedesse un solo Nobel, così da impedir loro di fare comunella, e permettere invece un contatto con i fortunati invitati, che consistevano in massima parte di dottorandi e ricercatori selezionati in tutto il mondo. Ebbene, la tavola a cui si sedeva Montagnier rimaneva inesorabilmente e invariabilmente vuota, e nessuno andava mai a sedersi vicino a lui e alla moglie!

Un giorno ci sono andato io, e gli ho chiesto se aveva voglia di darmi un’intervista sulle sue posizioni eccentriche, soprattutto sulla religione. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo, perché volevo parlargli, e gli ho spiegato che non ero un giornalista, ma un matematico, e che avevo firmato un libro con un papa: forse poteva fidarsi, o almeno poteva provare. Ha voluto consultarsi con la moglie, e dopo averlo fatto mentre io mi ero allontanato, mi ha risposto di no. Evidentemente non voleva mettere in discussione le proprie idee, e faceva benissimo, tanto queste erano balzane.

Nel 1983 Montagnier aveva però scoperto a Parigi, insieme a Françoise Barré-Sinoussi, il virus dell’Aids, e l’aveva chiamato LAV (Virus Associato alla Linfoadenopatia). Più o meno simultaneamente, lo stesso virus era stato scoperto negli Stati Uniti da Robert Gallo, che dimostrò il suo legame con l’Aids e lo chiamò HTLV (Virus T-Linfotropico Umano). Ne nacque una feroce disputa di priorità ai due lati dell’Atlantico, che fu sanata soltanto qualche anno dopo grazie a un intervento diretto dei presidenti francese Mitterand e americano Reagan, nel quale fu anche deciso di usare per il virus il nuovo nome HIV (Virus dell’Immunodeficienza Umana).

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La villa dei bambini. Le storie di 25 piccoli sopravvissuti che furono affidati alla figlia di Freud

giovedì, Gennaio 27th, 2022

Viola Ardone

«Se solo il mio cuore fosse pietra» è una frase tratta da uno dei più celebri romanzi di Cormac McCarthy, La strada, in cui un padre e un figlio avanzano in un mondo desolato e abitato da sopravvissuti. Ed è forse per questo che Titti Marrone la sceglie come titolo per il suo nuovo lavoro (Feltrinelli, pp. 240, € 17,50), perché sono dei sopravvissuti i 25 ragazzini scampati all’orrore dei lager nazisti, protagonisti della vicenda che rievoca. È una storia vera di cura e rinascita, di amore e dedizione, che viene riportata alla luce dalla scrittrice e giornalista con il coraggio di chi affonda le mani in una ferita che non ha smesso mai di sanguinare.

Tutto ha inizio nel 1945, la guerra è appena finita e le atrocità commesse nei campi non sono ancora del tutto conosciute al mondo: la verità, com’è noto, ha bisogno di tempo per emergere e per farsi strada. La villa di sir Benjamin Drage, a Lingfield, nella campagna inglese, viene trasformata in una residenza per piccoli reduci da campi di sterminio, orfanotrofi o nascondigli (in cui i genitori li avevano lasciati durante la guerra), per iniziativa di Anna Freud – figlia di Sigmund e psicologa infantile – e Alice Goldberger, una delle sue più fidate collaboratrici. Ne arrivano 25, tra i quattro e i 15 anni. Le loro giovani, giovanissime esistenze, sono un concentrato di orrori, sono vite segnate, certamente, eppure ancora in boccio. Il lavoro di Alice e di tutta l’équipe del centro è orientato in una duplice direzione: la prima è tentare di ricongiungere i bambini con i loro familiari, laddove ve ne siano ancora, o trovare un nucleo adottivo pronto ad accoglierli. È un impervio lavoro di indagine che consiste nel rimettere insieme l’identità di un bambino a partire da pochissimi frammenti. La seconda riguarda la possibilità per questi bambini di recuperare anche solo uno spicchio di infanzia, nonostante i traumi subiti, spesso incancellabili. L’universo concentrazionario si disvela a poco a poco attraverso i racconti dei giovani ospiti, ma più spesso tramite le loro azioni e reazioni, i loro disegni, i loro silenzi, i sogni e soprattutto i gli incubi. Ci vuole pazienza perché tutto riemerga, ci vuole temerarietà per confrontarsi con il male, quando il male si è andato a cacciare negli occhi di un bambino, ci vuole fiducia, non solo nella psicoanalisi, ma proprio nella natura umana.

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Ci sono due Cacciari: dell’inizio e della cosa ultima

giovedì, Gennaio 13th, 2022

Che Massimo Cacciari sia uno dei più importanti filosofi italiani, una delle nostre più brillanti intelligenze, non vi sono dubbi. Come non ho mai dubitato, neppure per un attimo, che potesse non vaccinarsi. Ieri, in fila per la terza dose, ha salutato le telecamere con il pollicione in evidenza e dichiarato: “Alle leggi si obbedisce. Socrate insegna. Chi può, vada a vaccinarsi”.

Be’, Socrate insegna anche tante altre cose, soprattutto ad ascoltare. Le ospitate televisive, che non si prestano al ragionamento filosofico, insegnano invece a parlare tanto, forse troppo. E, parlando troppo, si può anche finire fuori strada, in quella terra di nessuno dov’è possibile incontrare scontenti e rivoltosi e, talvolta, alimentarne la rabbia. La costante riflessione filosofico-politica di Cacciari, però, non poteva impedirgli di prendere posizione sulla continua emergenza del Paese, sui rinnovati provvedimenti che, in qualche modo, lo bloccavano, facendo del Covid l’unico tema su cui discutere e (non) vivere. Si è trovato anche in compagnia, lungo la strada, di chi ha avuto il torto imperdonabile di evocare Auschwitz, Hitler, stato d’eccezione, di ricorrere a metafore infelici, mentre i morti venivano seppelliti a migliaia, medici e infermieri tentavano di salvare vite e molti di loro perdevano la propria.

Ci sono due Cacciari, potrei dire, citando due dei suoi libri migliori, editi da Adelphi: “Dell’inizio” e “Della cosa ultima”. Il filosofo dell’inizio ha commesso diversi errori di comunicazione, pur avendo legittimamente segnalato alcune forzature, quella torsione volontaria di chi è stato chiamato, e continua a essere chiamato, a decisioni impopolari ma necessarie e inevitabili. Il filosofo della cosa ultima, al contrario, ha dato dimostrazione di intelligenza, facendo l’unica cosa che l’intelligenza detta: vaccinarsi e invitare a vaccinarsi.

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La «cultura» che vuole cancellare il passato

mercoledì, Gennaio 12th, 2022

di Antonio Polito

Colpisce che sia il Papa a criticare l’ansia di abbattere statue, ostracizzare classici della letteratura, censurare autori e registi che dilaga negli Usa e in Inghilterra

I più recenti discorsi di papa Francesco smentiscono ulteriormente, se mai ce ne fosse stato bisogno, le accuse di chi lo vorrebbe «cripto-comunista», o «globalista», se non addirittura propenso al relativismo culturale. E forse per questo sono passati per lo più sotto silenzio. «L’inverno demografico — ha detto per esempio all’Angelus il giorno di Santo Stefano — è contro le nostre famiglie, contro la Patria, contro il futuro»; dove quel riferimento alla Patria contesta l’illusione della accoglienza indiscriminata, e l’idea in fondo un po’ razzista che immagina di poter usare la manodopera di un popolo in migrazione, quello africano, per risolvere i problemi di un popolo in declino demografico, quello italiano, in una sorta di nuova «società servile».

Ma ancor più significativo è stato il durissimo attacco che il Pontefice ha mosso, davanti ai membri del corpo diplomatico in Vaticano, contro la cosiddetta «cancel culture», che negli Stati Uniti e nell’anglosfera dilaga come presunto strumento di affermazione dei diritti delle minoranze, bollata dall’Economist in quanto arma della «illiberal left». Il punto critico per Francesco è che quest’ansia di abbattere statue e monumenti, ostracizzare classici della letteratura e del teatro, censurare autori e registi, «rinnega il passato» nel nome di un «bene supremo indistinto e politicamente corretto». Un falso idolo, insomma, si potrebbe chiosare; con il rischio di una «colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione». F rancesco vede insomma un problema liberale che sembra sfuggire a molti liberal: e cioè che «si va elaborando un pensiero unico, pericoloso, costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi».

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Houellebecq ovvero la coppia eterosessuale contro l’Apocalisse

venerdì, Gennaio 7th, 2022
SAN SEBASTIAN, SPAIN - SEPTEMBER 25: French writer Michel Houellebecq attends 'Thalasso' photocall during...
SAN SEBASTIAN, SPAIN – SEPTEMBER 25: French writer Michel Houellebecq attends ‘Thalasso’ photocall during 67th San Sebastian International Film Festival at Kursaal, San Sebastian on September 25, 2019 in San Sebastian, Spain. (Photo by Carlos Alvarez/Getty Images)

L’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, “Annientare”, da oggi in libreria per La Nave di Teseo, è ambientato nel 2026-2027, un futuro prossimo nel quale si sono compiute inesorabilmente tutte le rovine che i precedenti romanzi di Houellebecq hanno annunciato: la disintegrazione dei legami sociali, la solitudine, l’anomia, la miseria affettiva, sentimentale, sessuale. Niente di tutto ciò suscita più dramma, né conflitto, né innesca un principio di rivolta come accadeva invece, seppur con vane speranze, nei precedenti romanzi. Semplicemente, per i giovani che popolano questo nuovo mondo è diventato naturale sigillarsi dentro se stessi, anzi la sola idea “di una relazione sessuale tra due individui autonomi” gli appare ormai come “una fantasia superata e, a dirla tutta, deplorevole”. Il contrario di quel che gli uomini e le donne hanno fatto fino a non molto tempo fa, ossia scopare, amarsi, formare coppie, costituire famiglie, e ancora più in precedenza comunità, partiti, movimenti, scuole, chiese. Così pare abbia scelto di finire l’Occidente.

Il protagonista del romanzo, Paul, è il consigliere e il confidente del ministro dell’Economia, Bruno Juge, “probabilmente il più grande ministro dell’Economia dai tempi di Colbert” – un personaggio chiaramente ispirato all’attuale ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire. Bruno Juge è un tecnico colto e pragmatico, in un governo di centrosinistra, che studia fino a notte fonda ogni dossier, complice una vita matrimoniale disastrosa. Aggira le direttive europee in nome degli interessi nazionali e sta cercando con successo di riportare la Francia all’industria. È anche uno dei possibili candidati alle prossime elezioni presidenziali e anche per questa ragione finisce nel mirino di una serie di indecifrabili cyber attacchi terroristici sui quali Paul indaga senza riuscire a capirci molto. In uno dei più preoccupanti video di computer grafica diffusi online, il ministro viene ghigliottinato come gli aristocratici durante la rivoluzione francese, e si capisce che la minaccia semini il panico nelle stanze del Ministero e del Governo.

Di tutti i romanzi di Houellebecq, “Annientare” è senz’altro il più romanzo di tutti. Le pagine che sconfinano apertamente nel saggio, come accadeva spesso nei precedenti romanzi, sono ridotte al minimo. Nelle più di settecento pagine di questa storia si passa invece dal thriller politico, al romanzo sul potere francese, al feroce show della campagna per le presidenziali senza capire per pagine e pagine dove si andrà veramente a parare. In un mondo in cui la mutazione annunciata da Houellebecq fin dal suo primo romanzo, “Estensione del dominio della lotta”, è quasi totalmente compiuta, accade però qualcosa di assolutamente inedito per un romanzo di Houellebecq. Il protagonista, Paul, l’uomo a cui l’autore presta più frequentemente i suoi pensieri, viene strappato dal suo lavoro quotidiano al fianco del ministro dell’Economia a Parigi ed è scaraventato nuovamente nella sua vita da ragazzo nella campagna francese. La causa è un ictus che colpisce il padre e lo lascia completamente paralizzato. Ma questo fatto, anziché precipitarlo ancora più profondamente nell’assurdità della vita, come accade alla maggior parte dei personaggi dei precedenti romanzi di Houellebecq, gli fa compiere invece un movimento inverso: la malattia, l’agonia e la prossimità alla morte non solo lo riavvicinano alla famiglia e alla moglie, con la quale non andava a letto da più di dieci anni, non solo gli fanno capire qualcosa di quel che succede nella Francia lontana dal centro, nelle campagne dove fioccano i voti per il Rassemblement national, ma lo riconnettono a un senso sacro dell’esistenza. “La foresta sembrava animata da un respiro calmo”, pensa Paul osservando la natura, “infinitamente più calmo di qualsiasi respiro animale. Era la vita nella sua essenza”.

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Chi ha svelato il problema dell’austerità

martedì, Dicembre 21st, 2021

Andrea Muratore

Allievo di Keynes e Einaudi, amico di Gramsci, Wittgenstein, Mattioli, il torinese Piero Sraffa è stato il gigante dimenticato del pensiero economico italiano del Novecento

Nel Novecento l’Italia ha dato vita a una scuola di pensatori economici di assoluto livello che hanno saputo far evolvere la disciplina e, soprattutto, capire la complessità delle grandi trasformazioni in corso nel tempestoso XX secolo. Tra questi, un maestro dell’economia del Novecento, tra i principali allievi di pensatori come Luigi Einaudi e John Maynard Keynes, il torinese Piero Sraffa (1898-1983).

Sraffa, l’economista della complessità

Sraffa interpretò la complessità della sua epoca andando oltre la classica dicotomia tra Stato e mercato, capendo quanto a partire dall’era successiva alla Grande Guerra l’ingresso di grandi masse nella partecipazione attiva alla società contemporanea, i cambiamenti industriali e le crescenti rivendicazioni imponessero nuove chiavi di lettura capaci di superare le spigolature del modello liberista di inizio Novecento e le tentazioni della reazione autoritaria.

Filosofo e pensatore politico prima ancora che economista, pur essendo estremamente attento al lato quantitativo della disciplina, Sraffa fu uno dei grandi critici delle dinamiche del suo tempo, fornendo sul piano economico le visioni che autori come José Ortega y Gasset o Johan Huizinga fornirono su quello socio-politologico. Così come questi grandi pensatori ritenevano inevitabile un’unione tra le grandi mutazioni sociali dell’epoca e gli sconvolgimenti politici che avevano portato all’era dei totalitarismi, Sraffa portò avanti un’analisi che imponeva di considerare l’economia come arma e strumento politico in grado di condizionare tali sviluppi.

Non a caso durante tutta la sua vita fu fortemente focalizzato sul rifiuto di ogni misura che imponesse paradigmi economici come assunti religiosi, prima fra tutta qualsiasi scelta recessiva che andasse nella direzione di misure di austerità promosse per subordinare l’uomo alle leggi di mercato.

Alessandro Roncaglia, già professore ordinario di Economia politica alla Sapienza Università di Roma, e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei ha scritto nel saggio L’età della disgregazione dedicato al pensiero economico contemporaneo molto del ruolo di Sraffa come pensatore poliedrico e capace di dare lezioni al presente. In questi tempi, ha scritto Roncaglia, “un conto è concepire la teoria economica come il modo in cui gli esseri umani affrontano il problema della scarsità, altro conto è guardare all’insieme delle relazioni economiche dal punto di vista della divisione del lavoro in un flusso circolare di produzione, distribuzione e consumo”. Quanto fatto durante l’intera sua carriera da Sraffa, che ha saputo confrontarsi come detto con i maggiori pensatori della sua epoca.

Un economista filosofo

Formatosi con Einaudi, suo relatore all’Università di Torino di una tesi sull’inflazione dell’Italia durante la Grande Guerra, docente dal 1923 a Cagliari e amico del filosofo Antonio Gramsci, dal 1927 chiamato da Keynes a Cambridge dove resterà fino alla morte, prima al Trinity College (fino al 1939) e poi al King’s College e ove fu lecturer per tre anni, poi director of researches, infine bibliotecario della Marshall Library fino all’ultimo giorno della sua vita, Sraffa si confrontò anche con altri importanti personaggi. Primi fra tutti il filosofo Ludwig von Wittgenstein, conosciuto nel 1929, e il “banchiere umanista” Raffaele Mattioli, che con Sraffa intrattenne una lunga corrispondenza negli anni in cui formava la classe dirigente della Banca Commerciale Italiana (Comit) all’ombra del regime fascista, allevando una generazione di pensatori liberi nell’ufficio studi formato anche grazie alle intuizioni sraffiane in cui saranno accolti, tra gli altri, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Guido Carli ed Enrico Cuccia, con cui costruì il progetto dell’IRI e di Mediobanca, e le influenze dei “Quaderni dal Carcere” sraffiani conservati in segreto nei caveau dell’istituto.

Per Sraffa le teorie economiche, siano esse antiche o moderne, non emergono semplicemente come frutto di mera curiosità intellettuale. Esse hanno origine da problemi di natura pratica che interessano la comunità e necessitano una soluzione, concernenti la produzione, il lavoro, la distribuzione dei mezzi. Sapere umanistico, ovvero una conoscenza della storia e delle società, e sapere matematico, per la modellizzazione di tali teorie, devono andare di pari passo: Sraffa sottopose a rilettura critica tutti i grandi classici, da Marx a Ricardo, ricordando l’importanza della dialettica politica nel promuovere una soluzione piuttosto che un’altra.

“Interessi opposti sostengono una soluzione o un’altra e adottano argomentazioni teoriche, ovvero universali, per provare che la soluzione da loro proposta è conforme alle leggi naturali, o che essa sarebbe attuata nell’interesse pubblico, o nell’interesse della classe dirigente o di qualunque sia l’ideologia dominante in un dato momento”, scrisse Sraffa nelle sue “Lezioni avanzate sulla teoria del valore”. Con la sua ricerca Sraffa ha fornito tutti i tasselli fondamentali al perseguimento dell’obiettivo di un abbandono della tradizione marginalista, che fondava sull’atomizzazione sociale e la negazione dell’utilità sociale del lavoro i suoi presupposti, a favore di un approccio omnicomprensivo che mirava a unire la ricerca del pieno impiego e lo sviluppo della produzione industriale come obiettivi armoniosi e non alternativi.

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La filosofia di Cacciari e Agamben è diventata uno spettacolo. Brutto

domenica, Dicembre 12th, 2021

Un discorso sopra lo stato presente del costume della filosofia italiana dovrebbe forse muovere dalla stessa situazione in cui era Giacomo Leopardi. Il passeggio, gli spettacoli e le chiese: la società italiana – diceva il poeta di Recanati – a conti fatti si riduce a questo. Ma le chiese pesano oggi molto meno che allora, mentre il passeggio, in tempi di pandemia, è sottoposto a severe limitazioni: restano gli spettacoli a far la società. Ora, che spettacolo dà di sé la filosofia?

Non il migliore, a considerare quel che si è potuto ascoltare a Torino, durante i lavori della neonata Commissione Dubbio e Precauzione. Sui dubbi e le precauzioni non vorrei però tornare: se avessero voluto filosofeggiare davvero, avrebbero fatto bene a impegnare la lunga giornata chiedendosi anzitutto che cos’è un dubbio, come si esercita, come lo si coltiva, quando ha ragione di essere e quando invece è solo un sofisma, quando è fondato e quando invece è pretestuoso, con quali argomenti lo si porta avanti, in quali contesti e regimi di discorso, a quali fini e con quali conseguenze, e così via.

Ma così non è stato, visto che si è potuto ascoltare di tutto, e sotto quella pregevole intestazione sono passati per dubbi cose molto diverse tra loro: poche ragionevoli, molte strampalate. Però non importa: Giorgio Agamben, il più illustre tra i partecipanti, ha detto che quello non era un convegno: i convegni sono infami, diceva (giustamente) Deleuze, e di sicuro, ha aggiunto Agamben, nessuno in epoca nazista avrebbe mai pensato di riunire la resistenza a convegno. Non gli è sicuramente sfuggito che la resistenza, Hitler imperante, non faceva convegno perché a convegno non poteva riunirsi neanche se avesse voluto, a differenza dei dubbiosi amici torinesi. Ma neanche di questo vorrei parlare.

Vorrei invece fare un paio di brevi osservazioni muovendo dal credito o discredito che la filosofia italiana guadagna da tutta questa vicenda. Con una premessa (faticosa: me ne scuso con i lettori), che dispiacerà a quanti, filosofi o no, sono convinti che la produzione del sapere filosofico dovrebbe osservare le stesse regole – per non dire lo stesso metodo – che osserva il sapere scientifico. Così non è, in realtà. Non è così nei fatti, e su questo non c’è discussione (e c’è anzi chi proprio di ciò si lamenta, e ne trae la sbrigativa conclusione che quindi non vale la pena perder tempo coi filosofi), ma non è così neanche in linea di principio, perché se così fosse verrebbe meno il luogo in cui di quel metodo o di quelle regole si intende far questione («motivatamente» questione: l’avverbio è importante, anzi decisivo, e farebbe, qualora osservato – osservato anche a Torino – la differenza fra il rigore filosofico e il tana liberi tutti). A non dire infine che «scienza» e «sapere» non sono sinonimi neanche di striscio: non lo sono per un filosofo, che non si dirà mai scienziato, né per uno scienziato, che tuttavia si spera non pensi per questo di potersi sbarazzare della filosofia, né per nessuno di noi altri, che assistiamo più o meno volentieri allo spettacolo.

Premesso tutto ciò, a Torino non c’era «la» filosofia italiana. Non vorrei che la cosa suonasse troppo burocratica (è solo una prima considerazione), né vorrei che si pensasse che si fa filosofia solo da una cattedra universitaria (le cattedre universitarie sono infami), ma insomma, se uno guarda ai docenti in organico nelle università italiane trova che della Commissione Dupre ne fa parte un numero molto, molto piccolo. Non ho fatto calcoli, ma penso che la percentuale sia inferiore a quella dei no vax sul totale della popolazione italiana. Quindi: tranquilli.

Ma c’era Cacciari! Ma c’era Agamben! È vero, e c’erano anche altri autorevoli studiosi, di cui – per quel che vale – ho sincera stima. Ma neanche così è possibile mettere le cose come se la filosofia italiana fosse rappresentata da, o allineata su, le loro posizioni (né è quanto essi mi pare pretendano). Né credo sia necessario far nomi di filosofi altrettanto autorevoli (ce ne sono), che considerano a dir poco rovinose le posizioni assunte da Cacciari e Agamben.

Di cosa si tratta, allora? Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia. Sto citando – devo dirvelo – il titolo di un libro di Jacques Derrida, uno di quei filosofi che gli spregiatori del pensiero continentale mai si sognerebbero di citare, mettendolo anzi volentieri tra i venditori di fumo. Obscurum per obscurius, si diceva una volta: le oscurità dei primi due, dei Cacciari e degli Agamben, giudicate per il mezzo di un pensatore ancora più oscuro, Derrida! Ma io ho bisogno di distinguere: penso infatti che un conto sia il tipo di esercizio critico al quale la filosofia praticata da Cacciari e Agamben abitua, un altro il tono che questo esercizio ha assunto nelle ultime esternazioni.

Bisogna però sapere di quale esercizio parliamo, prima ancora di occuparsi del tono. Perché la ricerca filosofica è ampia e varia, in Italia e nel mondo. C’è chi fa ottimamente filosofia a distanze siderali da Cacciari e da Agamben. Ci sono fior di filosofi della scienza, di filosofi del linguaggio, di filosofi della mente, che proprio non sanno che farsene dei loro libri (e la cosa è ovviamente reciproca). Ma c’è una cosa che una volta si chiamava metafisica, oppure filosofia prima, o anche filosofia speculativa, e che oggi in genere si indica come filosofia teoretica (neanche questi sono sinonimi, ma termini abbastanza strettamente imparentati fra di loro), che non fa filosofia della scienza, perché si domanda prima: che è scienza?

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Sophia Loren: “Lina, la mia amica geniale”

venerdì, Dicembre 10th, 2021

Maria Corbi

«Sono molto triste». Sophia Loren risponde dalla sua casa di Ginevra per ricordare la sua amica Lina. «E’ una giornata molto triste. Eravamo grandi amiche. Quando mi ha chiamato sua figlia per dirmi quello che era successo mi sono piombati addosso dolore e ricordi».

Vi sentivate spesso?
«Spesso alla nostra età è un concetto sfumato. Ma si, ci sentivamo e comunque siamo sempre state legate, eravamo amiche, legate da quel filo potente che è l’aver vissuto esperienze, passioni, professione, comuni».

E’ stata lei a consegnarle l’Oscar alla carriera. Ma rileggendo le cronache di allora sembra quasi che la Wertmüller non fosse così emozionata…
«Ma no, era emozionatissima ed io più di lei. Riuscivo a stento a trattenere le lacrime. Mi sembrava di doverlo ricevere io l’Oscar. Ricordo la sala enorme che faceva paura e noi due vicine, mano nella mano, l’affetto di tutte quelle persone. Era meraviglioso, sentivamo che la gente ci amava tanto. Attraverso quel tributo a Lina si volevano dimostrare la stima e l’affetto per quel cinema italiano che avevamo portato nel mondo. E Lina Wertmüller è stata, ed è ancora, amatissima da Hollywood. La nostra più grande regista».

Una donna. Questo ci rende ancora più orgogliosi, no?
«A me no. Io valuto la persona . Lei è stata una eccezionale regista, grande per il talento non per il suo genere».

Giancarlo Giannini ha raccontato che sapeva essere molto aspra con gli attori sul set . È vero?
«Era severa, questo sì. Lo era quando non poteva ottenere quello che aveva in mente e che cercava di trasmettere. Allora diventava burbera, lo è stata certe volte anche con me, anche se poi io riuscivo a stemperare la tensione con il mio parlare napoletano. Ma faceva bene, dirigere significa anche questo».

E nel privato?
«Era una grande amica, e con lei si rideva sempre molto. Ironica, originale, spiritosa, geniale. Raccontava delle meravigliose barzellette. Era generosa, piena di vita. Amava accontentare il pubblico, ma anche se stessa facendo le cose che le andava di fare. Una donna elegante, intelligente che sapeva vivere bene. E’ stata benedetta dal talento e dall’amore ».

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